Roma, 25 giu – Il ritorno sulla piattaforma streaming della Hbo del film Via col Vento, dopo il ritiro dovuto all’onda montante iconoclasta che su scala globale si è scagliata contro qualunque elemento ritenuto simbolo di razzismo, rappresenta la classica toppa peggiore del buco: infatti la Hbo Max non è tornata sulla sua decisione perché consapevole di aver ceduto a una isteria senza fondamento, ma più semplicemente sembra aver operato una di quelle decisioni strategiche che mirano a coniugare logica di profitto e politicamente corretto.
Ed ecco così la geniale scelta di sovraimprimere, bene in vista al film, un disclaimer in cui si ammette che il film “nega gli orrori dello schiavismo”; non paghi di questa già discutibile soluzione, alla Hbo Max hanno pensato bene di aggiungere anche due video di contestualizzazione storica dei fatti narrati. Il primo, affidato al volto noto della TV Jacqueline Stewart, è chiamato a colpevolizzare e a dipingere a tinte fosche l’epoca e l’ambiente in cui il film vede svolgimento, ovvero la Confederazione di metà XIX secolo: la Stewart infatti ricorda come la diffusione del film avrebbe, sin dalle sue origini, urtato la sensibilità degli afro-americani. Pur dovendo ammettere la valenza iconica e la estrema popolarità di Via col vento, la Stewart spara a zero contro il produttore del film, David O Selznick, ‘reo’ di aver contribuito a dipingere il Sud come un luogo di grazia senza mostrare davvero gli orrori del sistema schiavistico su cui pure era fondato.
Non può quindi mancare un riferimento diretto alle proteste anti-razziste, alla loro giustezza, al ricordo di George Floyd e una sottolineatura di come “il trattamento di quel mondo attraverso la lente della nostalgia nega l’orrore della schiavitù e la sua eredità in termini di disuguaglianza razziale”. Naturalmente si potrebbe osservare come i patiti della contestualizzazione criminalizzante a ogni costo si guardino poi bene dal fare altrettanto nei confronti delle cause da loro sostenute: e così mentre per Via col vento si deve forzatamente insistere nel dipingere il Sud di metà Ottocento come una abnorme mostruosità, un inferno schiavistico, si sorvola sulle devastazioni effettuate nel nome di BLM e si glissa sulla personalità di George Floyd, sugli abusi commessi sulla famiglia e sul fatto che quando è stato ucciso stava resistendo con violenza a un arresto. Cose che non ne giustificano l’uccisione ma che servirebbero appunto a contestualizzare i fatti.
Il secondo video dovrebbe rappresentare una sorta di dibattito tra storici, mirante a razionalizzare e comprendere la complessa eredità culturale incarnata da Via col vento. Arrivati a questo punto ci si potrebbe domandare se ancora si stia parlando del film con Clark Gable e diretto da Victor Fleming e che fu campione di Oscar, tra cui il primo a una attrice afro-americana; sì perché il dibattito, dai toni simili a quelli di un processo, si incentra sul fatto che il film sarebbe un veicolo privilegiato di revisionismo storico per propagandare la visione edulcorata della Lost Cause – ovvero il fatto che il Sud non avrebbe intrapreso la guerra per reclamare la propria indipendenza politica ma solo per rinfocolare il sistema schiavistico. Sfugge insomma a questo dibattito che la storia difficilmente si presta ad eccessive semplificazioni, da un lato o dall’altro, e sfugge che probabilmente le motivazioni della Guerra civile americana sono state un tantino più complicate della mera volontà di preservare lo schiavismo. E sfugge loro e al senso del ridicolo che si sta ancora, dopo tutto, parlando di Via col vento.
Cristina Gauri
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