Roma, 2 nov – In un mondo che non cessa di esorcizzare la morte (non essendo scambiabile con la vita, come può comprenderla un’epoca fondata sull’universale scambiabilità di ogni ente?) ha ancora senso la festa dei morti? La Chiesa cattolica, come noto, celebra oggi tutti i defunti, in una data che in teoria dovrebbe essere preceduta da un tempo di preparazione e preghiera in suffragio dei defunti della durata di nove giorni: la cosiddetta novena dei morti, che inizia il 24 ottobre. Il rito, di origine bizantina, non è probabilmente estraneo a quelle feste precristiane – tipo l’ormai arcinota celebrazione celtica di Samhain – che proprio in questo periodo dell’anno prevedevano un “apertura” che collegasse mondo dei vivi e mondo dei morti. Il rito cattolico venne comunque fissato dall’abate benedettino Sant’Odilone di Cluny nel 998, il quale stabilì che le campane dell’abbazia fossero fatte suonare con rintocchi funebri dopo i vespri del 1º novembre per celebrare i defunti, ed il giorno dopo, il 2 novembre, l’eucaristia sarebbe stata offerta “pro requie omnium defunctorum”. In seguito il rito venne esteso a tutta la Chiesa Cattolica.
Festività eminentemente privata, vede da sempre le famiglie ricordare i propri cari con visite al cimitero. Da un secolo a questa parte, tuttavia, esiste anche un culto pubblico dei morti, per quanto anch’esso caduto in disgrazia a causa della povertà spirituale di cui sopra. Per rintracciare le radici di tale culto dobbiamo riandare alla Grande Guerra, che solo in Italia costò la vita a 651.000 caduti militari e 589.000 vittime civili. Un tale, immenso sacrificio, condiviso anche da altre nazioni europee, determinò una sensibilità del tutto nuova rispetto alla vita e alla morte. Già durante la guerra cominciarono a diffondersi i war memorial anglosassoni o i monuments aux morts francesi. Nell’Impero tedesco e in special modo in Austria divennero popolari le Nagelfiguren, statue di origine medievale di legno rappresentanti cavalieri, scudi, aquile, croci e sommergibili. Ogni persona che donava una somma di denaro per la raccolta fondi aveva diritto a piantare un chiodo nella statua di legno, che così mano a mano veniva ad essere ricoperta di metallo.
Si stima che tra gli anni venti e trenta ne vennero costruiti 176.000 in Francia, oltre 3.500 in Romania e molti altri in Gran Bretagna e Germania. L’Italia non faceva eccezione. Già il Regio decreto del 13 aprile 1919 istituì la “Commissione nazionale per le onoranze ai militari d’Italia e dei Paesi alleati morti in guerra” presso il ministero dell’Interno sotto la direzione del Maresciallo d’Italia Armando Diaz. Il decreto legge 29 gennaio 1920 affidava questo servizio speciale al ministero della Guerra, mentre il decreto 10 marzo dello stesso anno istituì un “Ufficio centrale per la cura e le onoranze alle salme dei caduti di guerra”. Compito prioritario dell’Ufficio Centrale fu di rintracciare ogni tomba isolata ed esumarne la salma. Migliaia di cimiteri a ridosso delle prime linee furono soppressi, riducendoli da 2876 a 349. Al loro posto nacquero i sacrari. Essi sorsero per lo più sugli ex campi di battaglia. Furono soprattutto il Veneto, il Friuli-Venezia Giulia e il Trentino-Alto Adige ad accogliere fin dal 1923 i grandi sacrari militari. La realizzazione della maggior parte dei sacrari di guerra in Italia si colloca nell’arco temporale che va dal 1931 – anno nel quale fu emanata la prima legge organica in materia di sepoltura e onoranza dei caduti – al 1939. Il più noto e il più grande è ovviamente il sacrario militare di Redipuglia, in Friuli Venezia Giulia, costruito nel 1938 e dedicato alla memoria di oltre 100.000 soldati italiani caduti. La grande scalinata di pietra caratterizzata dall’evocativa scritta “Presente” è collocata direttamente davanti alla collina di Sant’Elia, sede del precedente cimitero di guerra i cui resti furono traslati nell’attuale sacrario monumentale.
Nella stessa logica di sacrari e monumenti rientravano anche i cosiddetti “Parchi della Rimembranza”. Già dalla fine del 1922, era stato il sottosegretario alla Pubblica Istruzione Dario Lupi a dare impulso al progetto. Interventista, combattente nella prima guerra mondiale, organizzatore delle prime camicie nere valdarnesi, nel 1921 Lupi era stato eletto deputato per la circoscrizione Siena-Arezzo-Grosseto e, dopo la marcia su Roma, era entrato a far parte del primo governo di Mussolini, appunto come sottosegretario alla Pubblica Istruzione. Il 27 dicembre 1922, il ministero della Pubblica Istruzione inviò a tutti i regi Provveditori agli Studi una lettera circolare con la quale veniva richiesto “che le scolaresche d’Italia si facciano iniziatrici di una idea nobilissima e pietosa: quella di creare in ogni città, in ogni paese, in ogni borgata, la Strada o il Parco della Rimembranza. Per ogni caduto nella grande guerra, dovrà essere piantato un albero”. Il rito doveva essere compiuto dalle scolaresche, in una comunione ideale fra nuove e vecchie generazioni, fra vivi e morti. Già nel 1923 furono inaugurati in Italia 1048 Viali o Parchi della Rimembranza.
È stato lo storico George L. Mosse che maggiormente ha ragionato sull’impatto culturale e poi politico di queste manifestazioni, soprattutto in ambito germanico. Mosse si è anche soffermato sui temi dei monumenti e sulle differenze presenti da nazione a nazione. In Italia e Germania, per esempio, spesso i monumenti rappresentano “torsi seminudi e muscolosi, e atteggiamenti aggressivi”, secondo un’estetica piuttosto classica. Si tratta di una iconografia che “presenta la guerra come un supremo banco di prova della virilità e del cameratismo maschile”. Sempre lo storico tedesco-statunitense, fu proprio questa estetica, incarnata nei monumenti, a permettere al vitalismo interventista di sopravvivere e di cambiare forma dopo che gli appelli della vigilia erano stati affogati nelle acque gelide della guerra di trincea. Quella molla anche ingenua che aveva spinto tanti giovani ad arruolarsi diventava al ritorno una consapevolezza lucida, fredda, di tutt’altro tenore ma di analoga potenza. Scrive Mosse: “Il culto dei caduti fu al centro del Mito dell’Esperienza della Guerra, fornendogli simboli che riorientavano la memoria del conflitto. L’entusiasmo un tempo provato dai giovani per la guerra come avventura, o come occasione di autorealizzazione personale, difficilmente poteva reggere la prova dell’esperienza diretta della guerra. Ma grazie al Mito dell’Esperienza della Guerra la nazione fu in grado di mantenere accesa la fiaccola”.
Adriano Scianca