Roma, 21 nov — Fine pena mai confermata in Appello per Mamadou Gara e Yussef Salia, così come le pene detentive di 27 e 24 anni e mezzo per Alinno Chima Brian Minthe, i pusher di origine africana che drogarono, stuprarono e uccisero nel 2019 Desirée Mariottini. La 16enne di Cisterna di Latina era stata trovata priva di vita nel degrado di un edificio abbandonato e frequentato da spacciatori nel quartiere «rosso» di San Lorenzo, a Roma. I quattro le avevano ceduto un mix letale di droghe e l’avevano stuprata mentre giaceva priva di coscienza su di un materasso lurido buttato sul pavimento dello stabile.
Omicidio Desirée, arriva la conferma in Appello per i due ergastoli
«Speravo nella conferma delle condanne — ha dichiarato la madre di Desirée, sollevata dalla conferma della pena.— Sono quattro mostri e devono stare dietro le sbarre. Questa sentenza mi da’ un solo po’ di pace dopo tanto dolore, ma il dolore ci sarà sempre e nessuno mi ridarà mai mia figlia». L’accusa è per tutti concorso tra in omicidio volontario, violenza sessuale di gruppo e cessione di sostanze narcotiche e psicotiche con l’aggravante della giovanissima età della ragazza e dall’impossibilità di difendersi. Nonostante fosse chiaro che Desirée avesse bisogno di cure ospedaliere, nessuno dei presenti fece nulla e venne impedito a dei testimoni di chiamare i soccorsi. «Meglio lei morta che noi in galera», fu la frase pronunciata in quell’occasione da uno dei quattro. «E’ stata invece violentata e lasciata morire», si legge nelle carte del processo.
«Meglio lei morta che noi in galera»
«Lo stato di semi incoscienza in cui versava Desirée le impedì anche di rivestirsi», ha spiegato il procuratore generale in sede di requisitoria davanti alla corte. «Respirava appena e nonostante fosse incosciente gli imputati rimasero indifferenti. Dicevano che si stava riposando pur sapendo che aveva assunto sostanze e si mostrarono minacciosi verso chi tra i presenti voleva chiamare i soccorsi fino a pronunciare la terribile frase: ‘Meglio lei morta che noi in galera».
Per il magistrato della pubblica accusa quella degli imputati è stata «una volontà cattiva nei confronti della vittima e legata al desiderio di mantenere il loro commercio di droga. Nessuno doveva sapere cosa succedeva in quella casa. Una chiamata al 112 sarebbe bastata a salvarla. Ma loro rimasero spettatori di una situazione che si aggravava e non permisero neanche agli altri presenti di intervenire per chiamare i soccorsi».
Cristina Gauri
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