Roma, 22 feb – Più di mezzo milione di mascherine (300mila modello Ffp2 e altre 250 mila del tipo Ffp3) che proteggono il 60% in meno di quanto dichiarato sulla confezione: è l’ennesima «sòla», come la chiamerebbero i romani, che ci hanno rifilato i cinesi.
E ora circolano 550mila Dpi con «una capacità filtrante di appena il 36%, contro il 95% richiesto dalla norma» importate con un contratto che assicurava: «i prodotti sono adeguati allo standard En 149:2001+A1:2009, relativo alla direttiva Ce 425/2016 sui dispositivi di protezione individuale». Garantite fino a marzo 2025, dalla Ente certificazione macchine, una società di Valsamoggia, nel Bolognese.
Milioni di mascherine cinesi fasulle
Dalla prova di filtrazione eseguita a luglio in un laboratorio spagnolo sono emersi ben altri risultati. Secondo quanto riportato da Repubblica «Quelle Ffp2 hanno una capacità filtrante di appena il 36%, contro il 95% richiesto dalla norma». Lo ammette l’importatore al quotidiano. Non solo: «Inoltre, neanche le Ffp3 sono regolari, hanno una capacità di filtraggio leggermente inferiore e non superano il test per la traspirazione». Bergamo, Pomezia, Ciampino, Como, Brindisi. «Sono milioni le mascherine (così come gli altri sistemi di protezione) importate dalla Cina con documenti apparentemente in regola e poi risultati taroccati. Solo il Nas ne ha sequestrati 6 milioni. Un numero mostruoso».
E il governo è responsabile
Da circa un anno, rivela l’inchiesta, per fare fronte all’emergenza sanitaria e all’oceanico fabbisogno di dispositivi di protezione il nostro governo decide che è «possibile importare dispositivi dall’estero anche se sono sprovvisti del marchio Ce di conformità alle direttive dell’Unione europea». Sono necessari solo alcuni documenti che certifichino che si tratti di materiale «equiparabile». Tra questi figura il cosiddetto test report, cioè l’esame dei materiali. Una metodologia che ha spianato la strada agli importatori, che fanno man bassa di mascherine vendute dai produttori cinesi; e ai certificatori improvvisati, coloro cioè che ricevono soldi per «mettere un timbro sulle bolle di accompagnamento».
Vale la pena ricordare che queste mascherine-fregatura sono le stesse utilizzate da medici, infermieri, «inspiegabilmente» rimasti vittime del Covid e diventati essi stessi veicolo di contagio. «Il punto – spiega Fabrizio Capaccioli, consigliere delegato dell’Associazione Conforma che rappresenta gli enti certificatori a Repubblica – è questo: la deroga che si sono inventati si basava unicamente su dichiarazioni documentali. D’accordo sulla necessità di fare in fretta ma abbiamo chiesto più volte la scorsa primavera di autorizzare i centri accreditati in Italia come i nostri, per un controllo rapido che non avrebbe allungato troppo i tempi. Ma il governo non ci ha ascoltato». Senza parole.
Cristina Gauri