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“Anche la terra è mortale”: a proposito di terremoti, Dèi e colpe collettive

by Adriano Scianca
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terremotiRoma, 31 ott – Il terremoto non scuote solo la terra, le case, le città, ma anche le certezze dell’uomo, in un’era in cui di certezze ce ne sono poche. O forse ce ne sono molte, ma tutte sbagliate. Ecco allora che il tremito della terra risveglia anche una teologia stracciona che costituisce un vero segno dei tempi. È passato per il matto isolato di turno quel viceministro israeliano che ha interpretato il sisma come una punizione divina per l’atteggiamento non abbastanza sionisticamente ossequioso della delegazione italiana all’Unesco. Eppure la relazione tra eventi naturali e colpa morale (quella altrui, per lo più) è un grande classico del monoteismo, sia pur nelle sue varianti più retrograde.

Parallelamente, un altro monoteismo uguale e contrario si è attivato in queste ore, quello ateo. Basti pensare alla miserabile campagna di marketing per il suo nuovo libro condotta dallo scrittore Massimiliano Parente, che sui social ha cominciato a dileggiare le chiese ridotte in macerie. A quanto pare ci sono rovine di case e rovine di uomini. Anche nel paganesimo greco-romano non mancano le tesi che mettono in relazione i grandi cataclismi con le azioni umane, ma con alcune significative differenze. In Grecia, lo Scuotiterra per definizione è Poseidone, ma fra gli Elleni si fa anche strada il primo tentativo di spiegazione razionale degli eventi sismici: per Anassagora il terremoto è dovuto all’aria che è penetrata nel terreno e non riesce a uscirne. Talete, dal canto suo, diceva che “la terra è sorretta dall’acqua, sulla quale galleggia come una nave, e quando essa è scossa dal movimento dell’acqua, diciamo che c’è un terremoto”.terremoti

A Roma, invece, il terremoto è prodigium, che richiede una interpretazione e un relativo rito di espiazione per restaurare la perduta pax deorum. Non servivano grandi catastrofi: a volte vengono annotate nelle liste dei prodigia raccolte dai sacerdoti romani anche un boato o un “muggito” della terra. A quel punto, fondamentale è l’interpretazione, in quanto, secondo Plinio il Vecchio, “il pericolo non sta solo nel terremoto in sé, ma ce n’è uno uguale o anche maggiore nel presagio che esso costituisce”. I resoconti dei terremoti di quei secoli ci parlano delle stesse zone colpite negli ultimi anni: le Marche, l’Emilia… Quanto all’Urbe, “mai la città di Roma ha tremato, senza che questo fosse il preannuncio di qualche accadimento futuro”, spiega sempre Plinio. Cicerone lo dice con ancora più forza: “Voi certo sarete pieni di paura per questi mali di cui prevediamo la minaccia. In realtà è la voce degli dèi immortali, è quasi un loro discorso che bisogna riconoscere quando il mondo stesso, quando le campagne e le terre sono scosse da un eccezionale terremoto e preannunciano qualche evento con un insolito e incredibile fragore. In questo caso dobbiamo decidere, come ci viene prescritto, delle cerimonie espiatorie e propiziatorie”.

Ci sono però alcune differenze tra questa visione e i deliri del viceministro israeliano (oltre al fatto che quest’ultimo, a differenza degli autori sin qui citati, parla dopo la scoperta della tettonica a placche). Tanto per cominciare i Romani non parlano tanto di colpa in senso morale, ma di un ordine che è stato infranto. È una visione molto più “tecnica”, scevra da moralismi. Anche un rito eseguito male, senza alcuna intenzione malevola, perturba l’ordine. E i terremoti non sono “punizioni”, bensì, appunto, “prodigi”, modi che hanno i numi per esprimersi. La funzione dei sismi non è tanto quella di “castigare”, quanto quella di rendere manifesta la rottura del patto con gli dèi. Inoltre, il segnale è per lo più rivolto a se stessi. Mentre nel puritanesimo ipocrita si è soliti guardare alle colpe altrui, il Romano interpreta i segni lavorando sulle proprie mancanze. Pensiamo al lacus Curtius, la profonda voragine apertasi al centro del Foro e che, secondo gli auguri, si sarebbe colmata soltanto gettandovi la cosa più preziosa del popolo romano. Allora il giovane cavaliere Marco Curzio, ritenendo che la cosa più preziosa del popolo romano fosse il coraggio dei suoi soldati, armatosi di tutto punto montò a cavallo e si consacrò agli dei Mani gettandosi nella spaventosa voragine, che si richiuse. È una cultura sacrificale, quella romana, ma che prescrive innanzitutto il sacrificio di se stessi. Se c’è del sangue che va versato, è sempre il proprio, non quello degli innocenti, di cui sono invece ghiotte altre divinità.

Ovviamente, man mano che i meccanismi naturali che sono all’origine dei terremoti si fanno più chiari, la visione romana va conservata nello spirito, molto meno nella lettera. Bisogna, cioè, trattenere quella consapevolezza, ma spostandola di livello, lasciando che la spiegazione fisica sia delegata interamente alla scienza, che peraltro abbiamo comunque visto avere delle radici nella grecità presocratica. Ma resta molto vicina alla nostra sensibilità la saggezza di Seneca, che di fronte a terremoti catastrofici diceva: “Ormai avrete capito che noi siamo dei miseri corpi insignificanti e deboli, inconsistenti, annientabili senza grandi apparati. Senza dubbio questo è per noi il solo pericolo: che la terra trema e improvvisamente si spacca e trascina giù ciò che le sta sopra!”. Ma non per questo occorre avere paura: “Se bisogna cadere, cadrò fra lo sconquasso di tutto il mondo, non perché sia lecito augurarsi una pubblica sventura, ma perché è di grandissimo conforto vedere che anche la terra è mortale”.

Adriano Scianca

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