Roma, 20 giu – Se fossimo fatalisti diremmo che sul campionato di Serie A aleggia una sorta di maledizione. Quella riservata a tutte quelle squadre del centro-sud che ciclicamente provano a interrompere il monopolio della Juve e delle milanesi. Napoli, Lazio, Roma e Fiorentina hanno tutte conosciuto la gioia dello scudetto. Pagando, come contrappasso, il salatissimo prezzo del fallimento o comunque di noie derivanti da gravi problemi economici.
Tra di esse, quella che più di tutte si è ripetutamente avvicinata all’impresa di scalfire definitivamente il dominio delle grandi del nord è la compagine nata, nel tardo pomeriggio del 7 giugno 1927, dalla fusione di tre preesistenti società sportive. Unite proprio con l’intento di contrapporsi a questa incontrastata supremazia pedatoria (che all’epoca comprendeva anche Torino e Bologna). Una riscossa che passasse dalla passione popolare, suscitata dagli storici vessilli capitolini. Ossia la lupa e quel giallorosso che riprende il gonfalone del Campidoglio.
La presidenza Viola
In tal senso, anche i più giovani ricorderanno i primissimi anni post-calciopoli, con la Roma impegnata in un infinito duello con l’Inter. Per un triennio abbondante i più importanti trofei nazionali – campionato, Coppa Italia, Supercoppa – sono affar loro. I ragazzi di capitan Totti nel 2009/10 non riescono a centrare il bersaglio grosso solamente per un passo falso interno (1-2 in rimonta della Samp all’Olimpico).
Sono però gli anni ‘80 a coincidere con il periodo migliore della sponda giallorossa del Tevere. Alla guida della società Dino Viola, imprenditore ambizioso e senza complessi d’inferiorità. Un decennio impreziosito dalla vittoria del campionato ‘82/’83 e da 5 Coppe Italia. A testimonianza che la strada intrapresa fosse quella giusta anche i “piazzamenti”. Tre secondi posti nella massima competizione nazionale – di cui uno che grida ancora vendetta, con il gol ingiustamente annullato a Turone che pesa come un macigno sulla classifica finale della stagione 1980/81 – e la cocente delusione di Coppa Campioni 1984.
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Quella dello scudetto è una macchina pressoché perfetta. La successiva sessione di calciomercato fa però perdere due titolari: il roccioso difensore Pietro Vierchowod, rientrante per fine prestito nella Genova blucerchiata, e l’austriaco Prohaska, che torna a Vienna. Pesante anche la perdita autunnale – causa infortunio – del centrocampista Carlo Ancelotti. Ciononostante la stagione parte bene, con la prima piazza occupata fino alla nona giornata. In patria la squadra capitanata da Di Bartolomei chiude comunque seconda, a -2 dalla Juventus, conquistando la Coppa Italia a spese del Verona.
A 11 metri dalla gloria
E’ l’anno in cui all’ombra del Colosseo si disputa per la prima volta la Coppa dei Campioni. La Roma – motivata anche dal fatto di essere città ospitante la finalissima del 30 maggio – supera agevolmente i primi tre turni (sedicesimi, ottavi e quarti) ma compromette il brillante cammino europeo nella semifinale di andata, cedendo per 2-0 al Dundee che, per bocca dei suoi tesserati, saluta i giallorossi con una serie di insulti, tra cui un “italian bastard” che non ha bisogno di traduzioni. Non contento, prima della gara di ritorno, l’allenatore degli scozzesi Jim McLean rincara la dose con ulteriori dichiarazioni al vetriolo nei confronti degli avversari, elettrizzando di fatto tutto l’ambiente romano. In campo ci pensano Pruzzo con una doppietta e Di Bartolomei dagli 11 metri a zittire le viperine lingue arancionere, costrette ad abbandonare la capitale tra il caloroso congedo di Sebino Nela e soci.
Quella del 30 maggio sembra essere la serata perfetta. La carica di un’intera città, lo stadio Olimpico vestito a festa e una squadra che – sull’insegnamento del proprio presidente – ha abbandonato ogni paura. Le cose però si complicano subito. Al quarto d’ora da una carica non fischiata sul numero 1 Tancredi i difensori giallorossi non riescono a spazzare il pallone, il quale carambola sui piedi del terzino britannico Neal, a cui non resta che appoggiare la sfera nella porta sguarnita per l’1-0 inglese. Passano i minuti, così come cresce la pressione della Roma che trova il meritato punto del pareggio grazie a un’incornata di bomber Pruzzo, servito alla perfezione dal destro di Conti. Nonostante un buon secondo tempo i giallorossi non sfondano e, complice la stanchezza, i supplementari regalano solo qualche tentativo da fuori area.
Roma mai piangerà
Sono i rigori quindi a decretare il più grande rimpianto della storia romanista. Decisivi gli errori di Bruno Conti e Ciccio Graziani. In quei momenti così carichi di tensione, così bisognosi di sangue freddo, a fare la differenza è stata forse la maggior esperienza continentale dei reds, alla quarta vittoria su quattro finali. A noi resta una bella pagina di calcio italiano con una chiusura beffarda. Ma gli eredi dell’impero non si perdono certo in lamentele e recriminazioni. Per dirla con Dino Viola “Roma non ha mai pianto e mai piangerà: perché piange il debole, i forti non piangono mai”.
Marco Battistini
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[…] del convincimento – una parte ben definita. Agostino Di Bartolomei invece, capitano della miglior Roma di sempre, ribalta entrambi i […]