Roma, 2 lug – Ieri Pelé e Maradona, fino a pochi mesi fa Messi e Cristiano Ronaldo, domani chissà, probabilmente Haaland. Ogni generazione calciofila insomma ha il suo campione da idolatrare. Miti sportivi, calciatori completi che hanno scritto – o lo stanno facendo tuttora – la storia del pallone. In questo elenco però compaiono solamente giocatori stranieri: eppure c’è stato un tempo, agli albori della fortunata pratica pedatoria, in cui il nostro paese con i suoi protagonisti risultava essere avanguardia anche dentro al rettangolo verde. Era il periodo dell’Italia prima “nazione sportiva” del Vecchio Continente, gli anni del doppio titolo mondiale, i frangenti in cui – per dirla con Vittorio Pozzo – avere in squadra Giuseppe Meazza “significava partire dall’uno a zero”.
Un talento precoce
Peppìn nasce a Milano nell’agosto 1910, conosce il (rudimentale) pallone giocando per strada. Ben presto si fa notare dalle squadre del capoluogo meneghino: la fazione rossonera nutre dubbi sul gracile fisico dell’allora adolescente, quella nerazzurra si fa convincere da qualità tecniche, doti balistiche e invidiabile cambio di passo. Il ragazzo svetta sui suoi pari età e così Fulvio Bernardini, ai tempi giocatore dell’Ambrosiana, lo segnala al proprio allenatore. L’ungherese Weisz se lo porta in prima squadra e a soli diciassette anni lo lancia tra i titolari: alla lettura della formazione un compagno borbotterà: “Adesso facciamo giocare anche i balilla”. Meazza, a cui resterà il soprannome, farà ricredere tutti. Fin da quell’esordio contro la Milanese.
La bandiera interista
Leggenda vuole che ci pensarono le bistecche offerte dai dirigenti interisti a rinforzarlo nei muscoli. Con la Beneamata giocherà per tredici stagioni (a cui va aggiunta l’ultima annata) e per il Biscione segnerà più di chiunque altro – 284 reti. Tra i primi calciatori a diventare anche personaggio pubblico – gradisce la dolce compagnia delle ragazze milanesi, guida la Fiat che porta il suo stesso appellativo – si laurea tre volte capocannoniere della Serie A e altrettante nella più antica competizione continentale per società, ossia la Coppa dell’Europa Centrale. Vince lo scudetto nel 1930, 1938 e 1940.
Rimasto fermo per un anno a causa di un problema al piede sinistro – infortunio che avrebbe potuto fargli interrompere anzitempo la carriera – torna in campo continuando a segnare per Milan, Juventus, Varese e Atalanta. Chiude con il calcio giocato vestendo ancora una volta la maglia dell’Inter.
Giuseppe Meazza, simbolo della Nazionale
Destro naturale, si impegnò profusamente nel migliorare la tecnica del mancino perché “«un grande calciatore deve avere i due piedi”. Lungo tutti gli anni ‘30 veste per cinquantatre volte la casacca della Nazionale, segnando la bellezza di trentatré gol (meglio di lui solamente Riva, con due marcature in più). Proprio in azzurro si afferma giocatore di calibro continentale: due volte campione del mondo, conquista così prima Roma e poi – arretrando il suo raggio d’azione per fare spazio a Piola – Parigi. Da Budapest a Londra, Vienna, Bruxelles, fino alla lontana Oslo non c’è grande città d’Europa che Meazza non abbia trafitto.
Suo il brevetto del gol “a invito” – costringeva il portiere avversario all’uscita uno contro uno, beffandolo sistematicamente con un’ultima finta o un tiro improvviso – come il piè rapido Achille aveva il suo tallone, impersonificato nell’estremo difensore spagnolo Ricardo Zamora.
Meazza si spegnerà dopo una lunga malattia a pochi giorni dalla sua sessantanovesima primavera. Chi è stato il migliore di sempre? Tra Pelé e Maradona, la terza via è sempre quella italiana. Eroe omerico prestato alla sfera di cuoio, dal 2 marzo 1980 è a lui dedicata la Scala del Calcio. E non poteva essere altrimenti: il giusto riconoscimento per il calciatore più forte di tutti i tempi.
Marco Battistini
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