Roma, 11 apr – Sin dai tempi del secondo dopoguerra, gli Usa hanno capito che del Giappone non avrebbero potuto fare a meno. Ecco perché dopo periodi iniziali di colonizzazione diretta dopo i trattati di pace, Washington ha iniziato ad avviarni in via del tutto “indiretta”, sia in termini economici che militari. A ben vedere, l’incontro di ieri alla Casa Bianca tra il presidente statunitense Joe Biden e il primo ministro giapponese Fumio Kishida è che la prosecuzione di questa sinergia, oggi più che mai necessaria per entrambe le parti. Con un’accelerazione americana decisa a tenere sotto controllo Tokyo il più possibile.
Usa e Giappone, accordi per un Pacifico anti-cinese
Oltre settanta gli accordi confermati tra Washington e Tokyo nella giornata di ieri, e tra essi spiccano quelli di tipo militare: sistemi di difesa anti-missile comune anzitutto. Il messaggio è chiaramente diretto a Pechino, ma anche all’Iran, alla Corea del Nord e a chiunque navighi in acque non esattamente a stelle e strisce. Kishida a Washington va per questo ma anche per essere meno isolato in un’Asia in cui la superpotenza cinese dimostra oggettivamente una strabordanza per ora non compita pienamente solo dalla potenzialmente esplosiva questione di Taiwan. Biden sembra confermare le prospettive dell’alleato quando dice che “i nostri legami sono indistruttibili e insieme costruiremo un Indo-pacifico più forte che mai”,
Tra gli accordi c’è anche l’impegno a mutare la struttura delle forze militari americane presenti in Giappone a “integrarsi meglio” con quelle giapponesi, oltre l’istituzione di un “consiglio industriale militare” per valutare in quali ambiti i due Paesi possano coprodurre armi insieme. Insomma “il più grande aggiornamento dagli anni Sessanta” dell’alleanza militare tra Tokyo e Washington in chiave anti-Pechino, come l’ha definito Biden, suona molto come una spinta di Washington verso un controllo più diretto dell’alleato. Dall’altro lato, Tokyo non ha molte scelte disponibili. Alla preponderanza statunitense si contrappone l’alternativa cinese.
Non è una sfida economica ma geopolitica
Non è una sfida di modelli economici, sia ben chiaro. Ormai sia i contendenti occidentali che quello cinese appartengono alla sfera dell’universo capitalista, sebbene con declinazioni radicalmente diverse. Gli Usa ispirano la concezione liberista da sempre e spingono il Giappone in tal senso da decenni (sebbene nel Sol Levante vi siano più forme eccezionali di limitazione al capitalismo senza freni di concezione anglosassone, ma questo è un discorso lungo impossibile da affrontare in questa sede). La Cina al contrario, indipendentemente da falce e martello ancora ostentati che fanno tanto immagine ma non necessariamente sostanza, è invece un’economia mista quasi perfetta, dove lo Stato mantiene una parte rilevante delle attività produttive ma ormai è pienamente concorrenziale con un’economia privata fortissima, fatta di piccole, medie imprese e anche multinazionali, ormai in grado di generare la maggioranza del Pil nazionale. Lo scontro è sul predominio dell’area. O quanto meno sul controbilanciamento della potenza di Pechino. Washington sa bene di non essere in grado di mantenere la supremazia mondiale degli ultimi 30 anni ma è altrettanto consapevole che lasciarne in piedi almeno una parte dipende dal controllo dei mari e, quindi, anche da una presenza significativa nel Pacifico.
Stelio Fergola