Roma, 7 ott – Nel 2003, il politologo britannico Colin Crouch ha introdotto negli studi politici e sociali il concetto di “post-democrazia” (post-democracy) per designare un sistema politico che, per quanto regolato da norme e da istituzioni democratiche, è, di fatto, governato da grandi lobbies (transnazionali o multinazionali) e dai mass-media (che ne dipendono, direttamente o indirettamente); formalmente, dunque, democrazia (potere del démos, del “popolo”), sostanzialmente una oligarchia.
Post democrazia: il problema
Nel Libro III della Politica Aristotele scrive: “Poiché costituzione significa lo stesso che governo e il governo è l’autorità sovrana dello Stato, è necessario che sovrano sia o uno solo o pochi o i molti. Quando l’uno o i pochi o i molti governano per il bene comune, queste costituzioni necessariamente sono rette, mentre quelle che badano all’interesse o di uno solo o dei pochi o della massa sono deviazioni […]”. E aggiunge che “o non si devono chiamare cittadini quelli che prendono parte al governo, o devono partecipare dei vantaggi comuni.” La situazione in cui i pochi, i più ricchi, governano per i pochi più ricchi è denominata “oligarchia” (considerata la deviazione dell’aristocrazia, cioè del governo dei pochi a vantaggio del bene comune). Oltre duemila anni più tardi, Charles Wright Mills (1916-1962) scrive, a proposito della democrazia statunitense: “Le decisioni tendono ad avere effetti unitari, i capi di ognuno dei tre gruppi – i “signori della guerra”, i grandi uomini d’affari, i dirigenti politici – tendono a marciare insieme, per formare la élite che detiene il potere in America.” Il termine “élite” rinvia a Vilfredo Pareto, un termine che rinvia, primariamente, anche se non esclusivamente, alla dimensione quantitativa del gruppo dirigente, come in Aristotele e come in Wright Mills: i pochi, i più ricchi, non, necessariamente, i migliori. La gerarchia politica non si fonda su criteri etici. L’aristocrazia, per Aristotele, per Pareto e per Wright Mills è un dover essere, non una realtà. Un’indicazione, questa, che va tenuta ben presente: la teoria politica è una cosa, la realtà politica è tutt’altra; la teoria democratica e la pratica democratica sono cose completamente diverse, fino a configurare una contraddizione: il governo democratico dei pochi e dei più ricchi; democratico quanto alla forma, oligarchico nella sostanza. Il problema era stato sollevato, a suo tempo, da Karl Marx nello scritto, pubblicato nel 1844, intitolato Die Judenfrage (La questione ebraica): “Solo quando l’uomo reale, individuale riassume in sé il cittadino astratto, e come uomo individuale nella sua vita empirica, nel suo lavoro individuale, nei suoi rapporti individuali diventa un essere appartenente alla sua specie, soltanto quando l’uomo ha riconosciuto o organizzato le sue “forces propres” come forze sociali, e perciò non separa più da sé la forza sociale nella figura della forza politica, soltanto allora l’emancipazione umana è compiuta.” L’uguaglianza giuridica non basta a garantire l’attuazione dei diritti dell’uomo; occorre l’uguaglianza sociale. A quel tempo non esisteva in Europa il suffragio universale che avrebbe garantito, poi, soltanto l’uguaglianza giuridico-politica, senza incidere sulle disuguaglianze sociali; ovunque il diritto di voto esistesse, esso era legato al censo. La democrazia, sul piano teorico, non è semplicemente legata al diritto di voto, ma alla possibilità di incidere effettivamente sulla formazione della volontà collettiva indipendentemente dalla posizione che si occupa nella produzione della ricchezza sociale. Sulla formazione della volontà collettiva, ossia sulla formazione del potere di fare le leggi. La teoria democratica si trova di fronte a un ostacolo elevato dal progresso tecnologico e scientifico che ha cambiato la realtà oggettiva sulla quale il potere legislativo deve legiferare, inducendo a sollevare il problema della competenza dei decisori e dissolvendo il mito (risalente addirittura al filosofo greco Protagora di Abdèra e contestato da Platone nella Repubblica) della “naturale” competenza politica di chiunque sia essere umano.
Socio-psicologia della post-democrazia
Nell’età dell’antropocene, cioè nell’età dell’assalto capitalistico alla biosfera, non è più possibile legiferare senza cognizione di causa e la decisione politica è obbligata ad appoggiarsi sulle competenze tecnoscientifiche, per quanto non neutrali, degli esperti. Il che, se complica il problema della democrazia come forma reale di regime, non incide significativamente sulla realtà dell’oligarchia; anzi: proprio la non neutralità degli esperti espone la legislazione a torsioni oligarchiche. Ma il problema della democrazia teorica è che essa può essere effettiva soltanto se fondata su una cittadinanza attiva e critica e, quindi, su un sistema formativo (scuola e mezzi di comunicazione) che prepari l’opinione pubblica in questo senso. Ma è noto non soltanto che nella società di massa non è questa la reale funzione che si coglie nei percorsi formativi (scuola, università) e nella comunicazione sociale (media); come scrive Wright Mills degli Stati Uniti d’America alla metà degli anni Cinquanta del XX secolo: “Da un lato si sono potenziate e centralizzate le strutture detentrici del potere, d’altro lato gli uomini si sono frazionati in ambienti ristretti; da entrambi i lati si è accresciuta la dipendenza dai mezzi formali di informazione e di comunicazione, ivi compresa la stessa educazione. Ma l’uomo che vive nella massa non riceve da questi mezzi una visione che lo aiuti a elevarsi; al contrario, nericava un’esperienza stereotipata, che lo abbassa ancora più: non può procurarsi il distacco per osservare le sue esperienze, e tanto meno per valutarle – e meno ancora può valutare ciò che non può sperimentare direttamente. La sua vita, anziché essere accompagnata da quella sorta di discussione interna che noi chiamiamo riflessione, si svolge aderendo a un inconscio monologo, che riecheggia schemi ricevuti dall’esterno. Così l’uomo-massa non ha progetti propri […] si lascia portare, rispetta le abitudini, il suo comportamento è una mescolanza gratuita di criteri confusi e di prospettive acritiche mutuate da persone che non conosce e nelle quali non ha più fiducia, ammesso che ne abbia mai avuta.“. Oltre sessant’anni dopo, Tom Nichols scrive: “Il problema più grande è che siamo orgogliosi di non sapere le cose. Gli americani sono arrivati a considerare l’ignoranza, soprattutto su ciò che riguarda la politica pubblica, una vera e propria virtù. Per gli americani rifiutare l’opinione degli esperti significa affermare la propria autonomia, un modo per isolare il proprio ego sempre più fragile e non sentirsi dire che stanno sbagliando qualcosa […] Tutte le cose sono conoscibili e ogni opinione su un qualsiasi argomento vale quanto quella di chiunque altro”. Non solo si crede alle sciocchezze, ma ci si oppone “anche attivamente a imparare di più, pur di non abbandonare le proprie errate convinzioni”. Questo è il retroterra socio-psicologico della post-democrazia: una pubblica opinione acritica è efficacemente utilizzabile dalle élites del potere. Si potrebbe addirittura sostenere che la post-democrazia inizia ben prima dell’età sulla quale si è basata la diagnosi di Crouch. Gli esecutivi post-democratici stanno conducendo il mondo all’autodistruzione, pertanto i problemi di un’opinione pubblica critica si pone con particolare urgenza; va ricordato che le istituzioni sono, nel loro reale funzionamento, le strutture della realtà socio-psicologica che le fa esistere: questo spiega perché una sola idea politica possa essere attuata in modi non soltanto diversi, ma opposti, l’uno all’altro. Ma le strutture della realtà socio-psicologica sono configurate dai rapporti sociali di produzione; la post-democrazia è il volto istituzionale delle dinamiche capitalistiche, soprattutto dopo la deregolazione dei mercati avvenuta dal 1989 al 2007.
Post-democrazia ed Europa
C’è, tuttavia, un insieme di processi concreti che tagliano trasversalmente le diverse forme di post democrazia in Europa: un insieme di processi denominato “costruzione europea” o, se si preferisce, “integrazione europea” (che qui usiamo come espressioni sinonimiche). Chi ripercorra le fasi della costruzione dell’attuale Unione Europea può notare come il suo principio motore sia la tensione diplomatica degli Stati costituenti a strutturare modalità sovranazionali di mercato che, da sei Stati partecipanti si è allargata, in poco più di settant’anni, a ventisette Stati partecipanti. La C.E.C.A. (1951), la C.E.E. (1957) costruiscono un’area di mercato integrata nella quale si afferma il principio del primato del diritto comunitario (dal 1963), che sviluppa l’unità degli esecutivi delle tre comunità (C.E.C.A., C.E.E., C.E.E.A., meglio nota, quest’ultima, come “Euratom”, costituita, con la C.E.E. nel 1957). L’istanza sovranazionale ha una chiara origine: l’esigenza statunitense, nell’Europa post-bellica, di integrare i mercati e di superare i nazionalismi di fronte al “pericolo sovietico”; si potrebbe dire, pertanto, che l’integrazione europea è un epifenomeno della “Guerra Fredda”. Si tratta, però, di un epifenomeno che tende a oltrepassare i limiti dell’integrazione dei mercati per sfociare quasi in un’integrazione politica, soprattutto dopo l’implosione del sistema egemonico russo-sovietico, quando si inizierà a usare, nei testi ufficiali, la denominazione “Unione Europea”. La cosa non stupisce più di tanto: l’integrazione dei mercati implica, in una certa misura, l’integrazione dei sistemi giuridici e amministrativi e, per lo meno, la compatibilità dei sistemi finanziari. A questo corpo che cresce progressivamente non manca la testa, il potere legislativo che si forma tra i Trattati di Maastricht (1992) e i Trattati di Lisbona (2007). Esso deve legiferare sulle materie di esclusiva competenza dell’Unione (accuratamente elencate) con un sistema decisionale inconsueto. Un sistema decisionale inconsueto perché esso stringe insieme in una stessa procedura istituzioni che lavorano secondo logiche diverse: la Commissione Europea, corpo di nominati, sia pure con la supervisione degli Stati membri, lavora secondo una logica tecnocratica per elaborare il brogliaccio che sarà sottoposto alla codecisione (in procedura legislativa ordinaria) del Consiglio dei Ministri dell’Unione che, nelle sue diverse composizioni, lavora secondo la logica diplomatica della difesa degli interessi di ciascuno Stato membro perché è espressione degli esecutivi al governo di ciascuno Stato membro, e del Parlamento Europeo (eletto a suffragio universale dai cittadini dell’Unione) che lavora secondo la logica democratica della dialettica maggioranza/minoranza. L’Unione Europea che, dagli inizi del XXI secolo dispone anche di una moneta comune, l’Euro (pur gestito da una istituzione non dipendente da alcuna istituzione dell’Unione), non è uno Stato, ma non è neppure un’organizzazione internazionale come le altre: il suo diritto, infatti, ha effetti diretti su ogni cittadino dell’Unione. Eppure, nel suo funzionamento legislativo, l’Unione Europea intreccia convenientemente principio della competenza, principio della rappresentanza degli Stati membri e principio della rappresentanza democratica dei cittadini dell’Unione, ma, come si è detto, in modo esclusivo, su un numero limitato di materie di legislazione (unione doganale, norme in materia di concorrenza per il funzionamento del mercato interno, politica monetaria per i paesi che hanno adottato l’euro come moneta, conservazione delle risorse biologiche del mare nel quadro della politica comune della pesca, politica commerciale comune); per la legislazione nelle materie non di competenza esclusiva, l’azione dell’Unione è disciplinata dal principio di sussidiarietà e dal principio di proporzionalità che stabiliscono che l’azione dell’Unione deve svolgersi in sostituzione dell’azione degli Stati membri (e dei corpi sub-statali) soltanto nei caso che questi ultimi non siano in grado di conseguire gli obiettivi fissati da essi stessi attraverso l’Unione e soltanto nella misura in cui il suo intervento sia proporzionato agli obiettivi comunitari.
L’ipotesi federale
Se l’Unione Europea fosse uno Stato (federale), essa rappresenterebbe una risposta istituzionale ai problemi della post-democrazia, ai problemi della torsione oligarchica della democrazia e ai problemi, connessi, della società di massa. Tuttavia, ben difficilmente essa potrebbe rappresentare una risposta economico-sociale a tali problemi. Non sono le istituzioni che creano la società, ma è la società a creare le istituzioni; una società capitalistica tende di per sé all’oligopolio e l’oligopolio tende al monopolio che, nella politica concreta, si traduce nel sistema delle élites del potere, cioè in oligarchia. La gestione comunitaria del mercato unico appartiene certamente alla tipologia dell’embedded capitalism, il capitalismo integrato da politiche sociali e dagli altri obiettivi comunitari. Ma essa assembla ordinamenti capitalistici di varia configurazione all’interno dello spazio egemonico dell’organizzazione militare denominata N.A.T.O., cosa di non poco conto dal punto di vista dei vincoli alla politica economica e, quindi, sociale, comunitaria. Va rilevato, inoltre, che sono gli Stati membri gli autori dei Trattati comunitari e che sono gli Stati membri, nel loro diverso peso economico, i “signori dei Trattati”. Ogni ipotesi di trasformazione dell’Unione Europea nella direzione dello Stato federale richiede, ovviamente, un soggetto cultural-politico europeo che si faccia portatore di un obiettivo così complesso. Un soggetto di cui non si scorge traccia, di fronte a orientamenti palesemente o copertamente ostili alla prospettiva di una federazione europea.
Prof. Francesco Ingravalle