Home » Un altro anno di guerra in Palestina: ma qualcosa è cambiato

Un altro anno di guerra in Palestina: ma qualcosa è cambiato

by Sergio Filacchioni
0 commento
Palestina

Roma, 8 ott – Sono passati 365 giorni dal 7 ottobre 2023, giorno in cui in tutto il Vicino Oriente sono tornati a soffiare i venti dell’intifada palestinese. Una guerra che però non comincia “ieri”: da quasi otto decenni infatti la lotta politica ed armata della Palestina – e di alcune nazioni arabe – contro lo Stato d’Israele non si è mai fermata. Così come non si è mai fermata la “rappresaglia”, che miete ininterrottamente vittime civili ed ora sembra volersi estendere al Libano. Ma quest’anno qualcosa è cambiato.

La Palestina insanguinata

In Palestina è cambiata prima di tutto l’intensità del conflitto e la nostra percezione su di esso; è cambiato l’umore dell’opinione pubblica; sono cambiati gli storici alleati d’Israele; è cambiato il rapporto di forze all’interno dei fronti extraparlamentari che hanno sostenuto da sempre la lotta palestinese; sono cambiate le misure di repressione dei governi occidentali. Sono cambiati soprattutto i termini: per la prima volta da tanti anni si inizia a sentire il termine “genocidio” accostato alle parole “Israele” e “del popolo palestinese”. Partiamo infatti da alcuni dati che ci danno la misura della straordinarietà di quest’ultimo anno di guerra: più di 600 membri delle forze di sicurezza israeliane hanno perso la vita nella spedizione punitiva su Gaza. Secondo il Ministero della Sanità gestito da Hamas, sono stati uccisi più di 41mila palestinesi. Un anno di guerra ha lasciato la striscia di Gaza in un cumulo di macerie mentre i civili rimasti devono combattere contro fame, sete e malattie. Numeri che ora vanno sommati alla nuova “operazione speciale” in corso in Libano: solo nel primo giorno di attacco sono morti 492 civili. Scuole, ospedali, campi profughi colpiti: nell’ultimo anno il grande circo mediatico dell’orrore non ci ha risparmiato nulla pur di mantenere alto l’hype. Parliamo anche dell’uccisione di “almeno 128 giornalisti e operatori dei media, tutti palestinesi tranne cinque“. Dopo gli attacchi del 7 ottobre, che qualcuno ancora definisce “a sorpresa”, la risposta militare israeliana è stata immediata e il governo ha delineato una serie di obiettivi principali. Il più immediato era quello di eliminare Hamas, il gruppo militante che Israele considera una minaccia alla sua stessa esistenza. Poi il fronte nord: il 30 settembre 2024 Israele ha lanciato quella che ha definito un’”offensiva di terra mirata” in territorio libanese per sradicare ed eliminare combattenti e postazioni di Hezbollah. Obiettivi raggiunti? Nessuno, se si considerano come obiettivi quelli di sradicare completamente organizzazioni come Hamas ed Hezbollah. Gli unici ostaggi israeliani ripresi – circa 117 – sono stati “scambiati” con quelli palestinesi durante la tregua di novembre. Se però c’è una cosa che Israele ha dimostrato a tutto il mondo i questo ultimo anno è che per loro non esistono “corridoi umanitari”, “blue line”, “linee rosse” o zone inattaccabili, violando ripetutamente e coscientemente il cosiddetto “diritto internazionale”, come dimostra l’inizio delle operazioni in Libano e Cisgiordania e come ha dimostrato la brutalità con cui le forze aeree hanno colpito Gaza.

Occhi puntati sulla Palestina

Ci sono però delle prime volte che prima d’ora non si erano mai verificate: prima di tutto – forse la più scontata – l’incursione di Hamas del 7 ottobre è stata la prima invasione del territorio israeliano dal 1948. Per la prima volta Il governo di Benjamin Netanyahu è diventato oggetto di aspre critiche internazionali – anche da parte di alleati storici come gli Stati Uniti – e anche da parte dell’opinione pubblica israeliana per quella che, a loro dire, è stata una “gestione inefficiente della sicurezza nazionale”. Gli Usa infatti, hanno “apertamente criticato Israele per l’uso di armi americane in modi incompatibili con il diritto umanitario internazionale” minacciando perfino di arrivare a sospendere le forniture militari per bocca dello stesso Joe Biden, istanza poi sbiadita perché impossibile dimostrare quali e quanti armi americane possano essere state impiegate in “violazioni al di fuori del consentito”. Critiche che sono aumentate esponenzialmente all’avvio delle operazioni su Rafah che perfino Amnesty International ha dichiarato trattarsi di “crimini di guerra”: “Il 26 maggio due attacchi aerei israeliani contro il Kuwaiti Peace Camp, una tendopoli per sfollati interni a Tal al-Sultan, nella zona occidentale di Rafah, hanno ucciso almeno 36 persone tra cui sei bambini e ne hanno ferite oltre 100. Almeno quattro degli uccisi erano combattenti. Gli attacchi, che avevano come obiettivo due comandanti di Hamas che si trovavano tra i civili sfollati, sono stati condotti con due bombe di precisione Gbu-39 prodotte negli Usa. Un’operazione militare condotta con queste munizioni, che disperdono frammenti mortali lungo ampie superfici, in un campo sovraffollato che costituiva un rifugio provvisorio per gli sfollati, ha probabilmente costituito un attacco sproporzionato e indiscriminato, che dovrebbe essere indagato come crimine di guerra”. Arriviamo poi al caso aperto alla Corte Internazionale di Giustizia dell’Aja dal Sudafrica contro Israele, accusato di aver violato la Convenzione sul genocidio del 1948 nella Striscia di Gaza. Il pronunciamento della Corte non ha stabilito una volta per tutte se Tel Aviv sia o meno responsabile di un genocidio contro il popolo palestinese, ma ha sancito l’accettazione del caso, il diritto dei palestinesi di essere protetti dagli atti di genocidio e ha ordinato a Israele di prevenire qualunque atto che possa essere ricondotto a genocidio a Gaza. La sentenza finale sulle accuse di genocidio potrebbe richiedere anni per giungere a una conclusione, ma il Sudafrica ha espressamente richiesto alla Corte di intervenire tempestivamente per proteggere i palestinesi da possibili ulteriori violazioni della Convenzione. La sentenza del 26 gennaio ha risposto positivamente in questo senso, pur non avendo ordinato – va detto – un cessate il fuoco o il ritiro delle truppe israeliane da Gaza. Per l prima volta, infine, Israele ha subito rappresaglie ufficiali e dichiarate da parte di un altro stato sul suo territorio: quelle dell’Iran.

Dalla Palestina all’Italia

In Italia abbiamo assistito da subito ad una schizofrenia che evidentemente già covava nel variegato mondo della sinistra e dell’antifascismo rispetto alla guerra in Palestina: i movimenti anti-fascisti “extraparlamentari” si sono spacchettati, trovando comunque una tendente unità nei confronti della lotta palestinese. Quindi le università occupate, quindi i grandi cortei, quindi i ripetuti scontri con le forze dell’ordine. Ultima in termini cronologici la giornata di guerriglia che lo scorso 5 ottobre ha interessato Roma, in zona Ostiense, dove i manifestanti ProPal hanno tentato di rompere il cordone di polizia. Tutto lo scollamento tra realtà e narrazione lo possiamo trovare nella comunicazione che ne è seguita: per i grandi giornali mainstream è impossibile coniugare la parola anti-semitismo alle forze di sinistra, quindi assistiamo ai voli pindarici di Repubblica che parla di “infiltrati”, “ultras fascisti”, “giovani imprevedibili che nessuno conosce”. Eppure bastava andare a vedere le sigle aderenti al corteo non autorizzato per farsi un’idea, sono pubbliche su Instagram: Cambiare Rotta, Fronte della Gioventù Comunista, Unione degli studenti, Ultima generazione, Movimento No Tav, Opposizione studentesca d’alternativa; ovvero i tanti nomi della galassia antifascista. Passiamo quindi ai “compagni” che mentre sono coperti dai media, rivendicano con orgoglio la piazza e gli scontri: “In piazza non c’erano quindi né buoni né cattivi. Così come non c’erano i black bloc infilitrati, i poliziotti provocatori, gli ultras fascisti con il tatuaggio dux. Chi ripropone, ogni volta, questa chiave di lettura: o non è in grado di leggere quello che accade nelle nostre piazze, o molto peggio, fa finta di niente pur di seguire i propri interessi di bottega”, fa sapere in un lungo post “Collettivo Militant” – voce ufficiale dei movimenti antagonisti romani. Un plauso alla coerenza. Ora magari andranno a sfasciare la redazione di Repubblica? Magari la prossima volta…

Lo scollamento tra politica ed opinione pubblica

In ogni caso questo ci dimostra quanto è inquinato di pregiudizi e clichè il dibattito italiano sul conflitto in Palestina: da una parte una fazione rabbiosa, dall’altra un sistema politico completamente appiattito sulla narrazione Sionista. Un sistema politico sia di destra che di sinistra, che vuole solo più controllo e più repressione su una popolazione che non gli crede più: Israele è sempre più impopolare in Europa, inclusa la Germania. Quest’ultima, senza che nessun vicino si ribellasse, ha applicato le leggi più repressive contro le proteste a favore della Palestina. Lo ha riportato in un’inchiesta l’Economist, secondo cui l’Italia è il paese dove è più bassa la percentuale di chi ha un’opinione positiva di Israele: appena il 7%. Tuttavia, a frenare qualsiasi iniziativa c’è un fattore potente in tutta Europa: l’ostilità verso l’Islam. La penisola, nota il settimanale inglese analizzando i sondaggi di YouGov, è la Nazione dove il divario tra l’opinione pubblica e la linea dell’establishment politico e giornalistico è più marcato. L’Economist ha quindi intervistato la politologa Nathalie Tocci, direttrice dell’Istituto Affari Internazionali di Roma: “La rabbia contro Israele produce effetti politici limitati: c’è un’opinione pubblica contraria a Israele, ma non determina il voto”, afferma Tocci. Insomma il Partito Democratico e Fratelli d’Italia hanno una base molto più ostile verso Israele rispetto alle loro dirigenze, che seppur velatamente critiche, restano fedeli ad una comoda poltrona. E questo ci porta ad una scomoda verità: i partiti nazional-populisti di destra e/o sedicenti sovranisti – quelli che teoricamente dovrebbero promuovere una visione alternativa all’egemonia statunitense nel Mediterraneo e all’escalation – una volta al governo tendono a riallinearsi rapidamente con l’establishment, sia nel Consiglio europeo sia nel Parlamento europeo. Così come Giorgia Meloni, che solo qualche anno fa incensava Hezbollah come baluardo di difesa della cristianità in Siria contro lo stato islamico (“Se in Siria è ancora possibile fare i presepi, se ancora è possibile difendere la comunità cristiana, è anche grazie a le milizie libanesi di Hezbollah”), ci si può aspettare che anche l’estrema destra tedesca e quella austriaca, fresche di vittorie elettorali che hanno fatto esultare il mondo anti-sistema, si allineino con la linea rigidamente atlantista e filo-israeliana di Von Der Leyen. Infatti, le nostalgiche passioni di Meloni per le milizie libanesi non hanno impedito a questo governo di approvare alla Camera, il 18 settembre scorso, un nuovo decreto sicurezza che va a colpire in modo generico il diritto di manifestare a diversi livelli: prevede che i blocchi stradali diventino reati con pene fino a due anni di reclusione; criminalizza le proteste pacifiche, con l’aggravante per chi si oppone alla costruzione di grandi opere pubbliche; prevede pene fino a vent’anni per chi protesta nei Centri di permanenza per il rimpatrio (Cpr); colpisce nelle carceri, dove viene teorizzato per la prima volta il “reato di rivolta”; inasprisce le pene per le occupazioni a scopo abitativo. Insomma, la risposta del Governo sembra essere una sola: polizia ovunque. Ma la giustizia? Non qui e nemmeno in Palestina.

Rimanere fuori dagli schemi

Quindi, in un anno sulla Palestina si sono aperti spiragli di luce, seppur va detto grazie soprattutto all’ormai incontestabile brutalità israeliana: quando i massacri vengono fatti alla luce del Sole, risulta difficile coprirli. Tranne a chi non vuole vedere. In Italia abbiamo visto la sinistra spezzarsi ai festeggiamenti del 25 aprile: un’altra prima volta che quest’anno ci ha regalato; abbiamo visto nelle università scontrarsi studenti rossi filo-israeliani con studenti rossi filo-palestinesi. Vediamo i giornali tergiversare sulle manifestazioni ProPal, accusandole di Fascismo nonostante siano composte esclusivamente da movimenti antagonisti e antifascisti. Vediamo un Governo che vuole usare il bastone contro i manifestanti nonostante abbia una base che non accetta più il filo-sionismo tout-court: forse, ma qui si azzarda un’ipotesi, gli europei iniziano ad essere stanchi dei fondamentalisti, che siano arabi o ebrei. In fondo cos’è Israele se non un grande baluardo di fondamentalismo veterotestamentario nel vicino Oriente? Stato Islamico e Stato Ebraico fanno rima dopotutto. Ora, ciò che gli Europei dovrebbero capire – anche e soprattutto quelli che non sbavano per la Segre ma nemmeno per Bin-Laden – è che tutto il fondamentalismo islamico di stampo wahhabita che si è riversato da noi con sbarchi continui ed attentati è legato ad un filo diretto con la volontà Sionista di destabilizzare la sua regione. Tanto un’autonomia europea quanto un vicino Oriente pacificato passano dalla sconfitta dell’ideologia sionista, in casa – Italia ed Europa – quanto in Palestina. Uno Stato Libero in Palestina è sacrosanto per loro quanto per noi. Classi dirigenti laiche e nazionaliste sono importanti per loro quanto per noi. È importante tenere a mente questo: tra nazionalisti filo-israeliani furbetti, una sinistra spregiudicata bifrontista e antifascisti in lotta per la Palestina che si dimenticano che a Gaza non esiste la fluidità sessuale, è molto facile perdere di vista un centro ideologico. Qualcosa però è cambiato, tutti i nostri nemici si azzuffano tra di loro: “grande è la confusione sotto il cielo”…

Sergio Filacchioni

You may also like

Commenta

Redazione

Chi Siamo

Il Primato Nazionale plurisettimanale online indipendente;

Newsletter

Iscriviti alla newsletter



© Copyright 2023 Il Primato Nazionale – Tutti i diritti riservati