Roma, 1 ago – Fango e polvere, questo era la Somalia. Tra bagiuni che arrancavano spossati verso le pitture rupestri di Lass Gaal e il puntuale monsone che afferrava le caviglie rispedendo il fiato verso le ancestrali rovine di Taleex. Quando comparvero le prime strade, le umili e instabili capanne divennero urbes e Mogadiscio fu presto caput viarum, la nuova Roma affacciata sull’Oceano Indiano a sud del già Sultanato di Migiurtinia. Nella Somalia di inizio novecento su tutto regnava la fame, alla fine degli anni trenta era forse lo stato africano più sviluppato. Soprattutto nelle aree urbane il tenore di vita sia dei coloni che dei somali faceva invidia a quello di molti Stati europei. A Mogadiscio vennero costruiti decine di edifici di notevole prestigio che seguivano lo stile razionalista tipico dell’architettura fascista. Circa 22 mila italiani giunsero in Somalia e fondarono in pochissimi anni un numero incredibile di aziende attive in particolare nel settore agricolo, avviando un processo di esportazione di frutta tropicale (in primis di banane) che non si arrestò neppure nel primo dopoguerra.
Il celebre storico e biografo britannico Denis Mack Smith nel suo “Le guerre del Duce”, pur viziato da un senso di colpa post coloniale tipico degli autori inglesi, ammetterà candidamente: “Gli amministratori coloniali italiani fecero spesso un buon lavoro, e talvolta ottimo. Costruirono vaste reti stradali; e in qualche caso le popolazioni locali ricevettero – dall’abolizione giuridica della schiavitù, dal controllo delle epidemie e delle carestie e dall’amministrazione della giustizia – vantaggi più concreti che non le popolazioni delle vicine colonie britanniche”. Il marchio italiano, qualcosa di unico. Nessun’altra potenza coloniale infatti adottava simili metodi rispettosi nei confronti delle popolazioni indigene. Ma rispetto non significa accettazione dell’esistente, significa comprendere e sviluppare una cultura senza cancellarla. Significa essere consapevoli dell’esempio romano che evoca l’interpretatio come linea guida per erigere colonne di marmo anche nel vuoto di sabbia. A partire dal 1936 il territorio somalo divenne un impressionante cantiere a cielo aperto, in quattro anni furono costruite dall’amministrazione coloniale italiana decine di scuole, ospedali, porti, piazze. Nel pieno rispetto delle tradizioni tribali e della religione islamica locale, ogni nuovo villaggio vide sorgere una moschea vicina alla chiesa cattolica. Su tutti notevole sviluppo ebbero i villaggi Genale e Villabruzzi (altrimenti detto Duca degli Abruzzi), con quest’ultimo costellato di piantagioni di cotone, banane e canna da zucchero. La lira italiana introdotta dal governo fascista sostituì tallero e rupia indiana, contribuendo al rapido commercio con Roma e alla nascita di nuovi mulini e zuccherifici che godevano di finanziamenti appositi. Ponti, ferrovie e strade moderni sorsero in pochissimo tempo per collegare Mogadiscio alle zone più remote, ma fondamentale per l’economia coloniale fu la realizzazione della “Strada imperiale Mogadiscio-Addis Abeba”. Un’opera straordinaria che legandosi alla sua prosecuzione verso il porto di Massaua, la “Strada imperiale Addis Abeba-Asmara”, permetteva agli autocarri un coast to coast Oceano Indiano-Mar Rosso che aggirava il problema legato al commercio navale, dovuto all’inevitabile passaggio dei mercantili dal Golfo di Aden e da Gibuti, entrambi controllati e sottoposti a gabelle dalla Gran Bretagna
In Somalia il fascismo riuscì in pochi anni là dove le altre potenze coloniali avevano fallito: contenimento delle guerre intertribali e assegnazione della terra a coloni italiani soltanto dove la terra non era già coltivata da indigeni. Ruth Ben-Ghiat, giornalista della CNN e autrice del saggio Italian Colonialism, scrive: “I nuovi governatori italiani, Guido Corni e Maurizio Rava, iniziarono una politica di assimilazione dei somali e della loro cultura, basata sul rispetto della struttura tribale e sociale e sul rispetto per l’Islam come religione di questi sudditi. Molti somali si arruolarono nelle truppe coloniali italiane”. Come riportato su un ottimo articolo, pubblicato due giorni fa da Italia Coloniale, in Somalia: “Il Governatore de Vecchi fece studiare anche un nuovo sistema di irrigazione in derivazione del fiume Uebi Scebeli per distribuire omogeneamente l’acqua in tutto il comprensorio, facendo realizzare una nuova diga, lunga 90 metri, in sostituzione di quella vecchia ormai fatiscente. Insieme alla diga, inaugurata il 27 Ottobre 1926, vennero realizzati un nuovo canale principale di 7 chilometri e cinque secondari, creando complessivamente una rete di 55 chilometri di nuove canalizzazioni, insieme a 200 chilometri di strade camionabili terminate poi nel 1928. Parallelamente alle opere per l’irrigazione l’intero comprensorio, circa 18 mila ettari, venne indemaniato, inquadrato e colonizzato, suddividendolo in 83 concessioni divise in cinque zone”.
Ed è sempre il sito Italia Coloniale a riportare la circolare del 14 giugno 1926, firmata da de Vecchi e indirizzata al Residente di Merca: “Non mi fermo sulla questione del trattamento limitandomi a ricordare che in Somalia vige per legge il Codice penale italiano per bianchi e neri; che il Giudice della Colonia conosce molto bene il suo dovere e che io sono fermamente deciso a non ammettere da chicchessia la benché minima violazione della legge. Ma la precisa informazione che qui intendo dare perché tutti la conoscano, si è che non tarderanno molto tempo ad essere emanate altre chiare disposizioni di legge protettive del lavoro e quindi della mano d’opera anche agricola nella intera Colonia, e che la organizzazione e l’impiego dell’ascendente enorme del Governo e del Governatore sugli indigeni hanno lo scopo umanitario, disciplinare e fascista di un graduale avviamento al lavoro di queste popolazioni, e non mai di qualsiasi coazione che crei larvate schiavitù o servitù della gleba, e meno che mai a semplice uso od abuso e servizio di privati.” Da leggere e rileggere, per capire cosa fece sul serio il fascismo nelle colonie africane, non solo in Somalia quindi.
Non a caso quattro anni fa l’allora presidente somalo Hassan Sheick Mohamud, scrisse un accorato appello per chiedere all’Italia, letteralmente, di colonizzare di nuovo il suo Paese. “L’Italia ricostruisca la Somalia come fece in passato. Storicamente l’Italia è la nazione europea che ha colonizzato la Somalia a cavallo fra XVIII e XIX secolo, è questo il motivo dei forti legami fra italiani e somali. Esiste una grande fiducia fra i due popoli. Ricorderete che nella II Guerra Mondiale l’Italia è stata una delle nazioni perdenti e all’epoca la Somalia era occupata dagli inglesi. Nonostante tutto questo, quando l’ONU chiese ai somali chi dovesse prepararli per l’indipendenza, noi abbiamo scelto l’Italia”. Purtroppo probabilmente l’ex presidente somalo ignora che l’Italia di oggi non è l’Italia fascista di allora, quando alla base di tutto c’erano creazione di lavoro, tutela dei lavoratori, rispetto della cultura indigena e volontà ferrea di edificare civiltà. La Somalia degli anni trenta era forse più avanti dell’odierna Italia.
Eugenio Palazzini
2 comments
Abbiamo lasciato una indelebile storica impronta !
Per ragioni di lavoro, navigazione, ho toccato molte volte i porti di Merca, Chsimaio, Mogadiscio dove imbarcavamo su navi frigorifere carichi di banane dirette a Napoli, Genova. Una frase che molte volte ho sentito ripetere dagli anziai e che è rimasta impressa nella mia mente è:
“Fintanto che si cantava Faccetta Nera si mangiava mattina e sera ora che si dice thank you non si mangia più” Frase che racchiude in se stessa il buon ricordo che i nostri padri hanno lasciato.