Roma, 22 apr – È il minuto 86. Mancano quattro minuti più recupero alla fine di una partita che la Roma sta perdendo 2-1 in casa col Torino, giocando male, stanca, lunga, a tratti svogliata e totalmente deconcentrata e che rischia di buttare all’aria l’ultimo obiettivo rimasto in stagione: la qualificazione almeno ai preliminari di Champions League. Ma ecco che lo stadio ritrova brio e inizia a fare la ola. Francesco Totti, “il Capitano”, si è tolto la tuta ed è pronto ad entrare in campo. Il suo ingresso assume un’importanza particolare dopo quasi un mese di polemiche. Ma tutto il tifo all’Olimpico e gran parte di quello che segue la partita in tv o alle radio, è con lui. Totti entra. Mancano solo quatto minuti, pensare che il Capitano possa risolvere, ancora una volta, le sorti della sua Roma è totalmente irrazionale. Ma il tifoso, quello vero, quello che ha un rapporto molto più che empatico ed emotivo ma anzi quasi estatico con la sua squadra, è l’essenza stessa dell’irrazionalità. Lui SA che Totti cambierà la partita. C’è una punizione dalla tre-quarti campo, tutti si aspettano che Totti vada a posizionarsi subito sulla palla per calciare e scodellare in area. Ma Francesco Totti non esita un attimo e si dirige in area, come spinto da una forza che gli dona una consapevolezza che nessuno comprende. È Pjanic a lanciare la palla in area. Manolas tocca di testa e la palla arriva lì, sul secondo palo, proprio dove Totti si è posizionato, come se sapesse già dove sarebbe arrivata. Una spaccata, la rete che si gonfia, una corsa a braccia larghe verso la Sud come ad accoglierne l’abbraccio ideale e lo stadio esplode letteralmente. Un Olimpico che è quasi vuoto, per colpa delle politiche societarie americane che sempre più stanno allontanando la squadra dai tifosi e soprattutto per le scelte scellerate del prefetto Gabrielli che ha deciso di dividere una curva con una barriera.
Ma che improvvisamente esplode in un’estasi di colori e urla, che sembra quasi riempirsi e strabordare quando migliaia di tifosi scendono di corsa verso il vetro che divide gli spalti dal campo per sentirsi ancora più vicini con il loro capitano, uno stadio che sembra riempirsi perché anche chi segue dalle radio, dalle tv, anche chi non può più entrare allo stadio in quel momento è lì, in mezzo a quel delirio che vorrebbe abbracciare Francesco Totti e con lui la Roma intera. Ma non è finita. Passa appena un minuto, Perotti crossa in area, Maksimovic tocca forse col braccio che comunque è attaccato al corpo. Calvarese, dopo aver negato alla Roma due rigori nettissimi, fischia proprio quello che non c’è. Paura di sentirsi dire di aver negato ben tre rigori in una partita che vale la Champions, consapevolezza degli errori dei suoi assistenti di porta e tentativo di “compensare”, o forse semplicemente incompetenza. Sta di fatto che ora in campo c’è Totti e sul dischetto va lui. Scocca il minuto 88, Totti calcia, Padelli sembra intercettare ma non può nulla. Non oggi. La rete si gonfia. E il delirio visto due minuti prima è amplificato esponenzialmente. Il Toro è domato e sacrificato e la Roma rinasce. Sembra una favola, ma in fondo a pensarci bene tutta la storia di Francesco Totti lo è. È la favola sognata da tutti i tifosi: crescere bambino nelle giovanili della propria squadra del cuore, della squadra della propria città, esordire a 16 anni in serie A proprio con quella maglia, diventarne capitano e simbolo e giocarci per più di vent’anni, per una vita intera. 597 presenze e 247 gol, il secondo marcatore di sempre della massima serie italiana, 754 presenze e 303 gol se si aggiungono le altre competizioni ufficiali. Il più forte giocatore italiano degli ultimi vent’anni, secondo tutti. Per molti addirittura il più forte dal dopoguerra, dove comunque si gioca il podio solo con Roberto Baggio e Gianni Rivera.
Un giocatore capace di segnare in tutti i modi, dal tiro al volo di sinistro da posizione impossibile che a Genova ha fatto saltare in piedi ad applaudire anche i tifosi avversari della Sampdoria, alla corsa dalla metà campo di San Siro che lascia sul posto Cambiasso e Burdisso per finire al limite dell’area dove un “cucchiaio” batte Julio Cesar, al cucchiaio dall’angolino dell’area del Castellani di Empoli che entra sotto al sette del primo palo contro ogni legge fisica, a quello da più di venti metri al derby che batte Peruzzi, da punizioni come quelle contro Inter e Milan che sembrano prodezze balistiche possibili solo con una combinazione impossibile dei tasti del joystick fino alle serpentine che mettono a sedere mezza squadra del Torino allora allenato da Camolese. Ma soprattutto la facilità con cui vengono fatte giocate impossibili, tocchi morbidi che accarezzano la palla che deve essere solo spinta in rete, azioni in cui il Capitano è spalle alla porta, quasi a metà campo, in cui qualunque giocatore normale avrebbe bisogno di almeno altri due tocchi di palla e almeno un altro secondo di tempo anche solo per riuscire a pensare e capire di poter lanciare un uomo a rete e che invece si realizzano così, all’istante, con una semplice girata, un tocco e la corsa del giocatore lanciato a rete. Un giocatore capace di rimettersi in piedi dopo poco più di due mesi da una frattura scomposta alla caviglia, giocare un mondiale con una gamba sola, vincerlo e nonostante le critiche dei suoi nemici, raggiungere il record ancora imbattuto del maggior numero di assist vincenti in una competizione mondiale. E poi ritornare ancora zoppicante in serie a, quando per la prima delle tante volte le malelingue dicono “è finito” e vincere la Scarpa d’Oro.
E superare ogni anno in cui si predice la sua fine calcistica e arrivare fino ad oggi, a quasi quaranta anni di età, a ribadire la sua classe calcistica ineguagliata. Francesco Totti non è un giocatore come tutti gli altri, con buona pace di chi lo dice o peggio di chi lo pensa veramente. Dire che Totti possa essere considerato come un qualunque giocatore di una squadra è il peggior egualitarismo che si possa pensare. È figlio di quella mentalità che trasforma tristemente la squadra – etimologicamente il gruppo che insieme fa quadrato, un unico corpo in cui le individualità di ognuno vengono valorizzate al massimo per dare all’unità una forza che è ben più grande della somma dei singoli valori – nel “collettivo”, dove tutti valgono come gli altri, dove ognuno è intercambiabile perché contano solo gli schemi e in cui non c’è spazio per la genialità, per la giocata che da sola spacca la partita, dove qualunque illuminazione del campione che spezza l’ordine tattico è condannata. È la traduzione calcistica della massima brechtiana “beato quel popolo che non ha bisogno di eroi”. È una versione orizzontale del calcio che fa da specchio all’orizzontalità con cui si vede e si vive l’esistenza dei giorni nostri. “Totti è solo Totti, non è la Roma”. Per un certo senso è vero, perché immedesimare la squadra con un solo giocatore è comunque sbagliato. Ma in un altro senso, uno più alto che non può essere capito da chi non ha cuore, è vero anche il contrario. Perché Totti è il leader in campo, quello che entra in silenzio e da solo, senza bisogno di discorsi alla Braveheart, cambia il volto della partita non solo per le sue giocate calcistiche, ma per la sicurezza che dà all’intera squadra.
Tutti i giocatori che hanno giocato con lui ricordano e ammettono che con lui in campo la squadra si muove in maniera diversa, con più sicurezza, perché ognuno improvvisamente diventa più grintoso e sa quello che deve fare. Basta leggere le dichiarazioni che di lui hanno fatto i campioni come Batistuta, Riise, Cafu o anche solo quello che ha detto Florenzi a fine partita. Basta vedere le ultime 3 partite di campionato e vedere come la squadra, con la sola presenza del vecchietto quarantenne “finito”, si è trasformata da lunga e svogliata a corta, determinata e grintosa. Ma soprattutto Totti è il punto di unione tra squadra e tifoseria. La sua stessa storia fa identificare idealmente il tifoso con la sua persona. Con lui in campo non esistono barriere che possano reggere, con buona pace di Gabrielli e Alfano, perché l’unità ideale tra tifo e squadra è compiuta. Totti in campo diventa la spinta ideale dei tifosi tutti, quelli presenti, quelli assenti e anche quelli assenti “per forza”. Per queste cose è vero anche che “Totti è la Roma”, non per una personificazione emotiva da tifoso dei Cesaroni ma proprio per una sublimazione che va oltre l’individualità, perché il Capitano con tutta la sua storia è diventato simbolo di qualcosa che va oltre la sua singola persona. Tutti aspetti che lo rendono avverso a chi desidera un calcio diverso, un calcio senza leader, un calcio di “professionisti” – ovvero miliardari viziati che giocano solo per stipendi a sei zeri, veline e modelle – invece che di atleti pronti ad impegnarsi per i colori e la bandiera, un calcio fatto di collettivo invece che di squadre, di idioti sugli spalti col cappellino e le manone di gommapiuma che stanno seduti a mangiare popcorn invece che di pazzi, invasati, folli e irrazionali che entrano in comunione mistica con la propria squadra. Un calcio orizzontale, appunto. E forse non è un caso che questa visione orizzontale venga portata a Roma, ancora una volta, dalla cultura a stelle e strisce.
Carlomanno Adinolfi
4 comments
Ahahahahah!!! Le comiche.
Ho sempre tifato la Fiorentina ma per me Totti è sempre stato il piu’ grande calciatore italiano di sempre.
Chi lo denigrava ai mondiali vinti dall’ Italia non ha mai considerato che come minimo teneva 3 giocatori attaccati a lui e quindi tolti dalla squadra avversaria. Purtroppo molti italiani sparano giudizi
dovuti all’ invidia di non averlo nella loro squadra o per via di una totale incompetenza a capire i…fenomeni!!
In molti scordano che quando uscì nella finale Abigal che doveva tenerlo si liberò e fece faville slla fascia sinistra, e che la squadra crollò e rischiò di non arrivare ai rigori. Oltre al fatto, come ho scritto, che in quell’edizione fece il record di assist vincenti, eguagliato finora solo da Cuadrado con la sorprendente Colombia degli ultimi mondiali.
Cosa dire……penso nulla.parlano i fatti.
bravo Francesco.