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Terremoto: quello che possiamo fare per metterci al sicuro

by Paolo Mauri
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amatriceRoma, 2 set – L’Italia è un Paese il cui territorio per buona parte è a rischio sismico. Secondo l’Ingv ed il Cnr circa 24 milioni di abitanti risiedono in zone in cui questo rischio è classificato come medio-alto, come si può evincere dalla carta della pericolosità annualmente pubblicata dall’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia. Cosa si può fare affinché si possa prevenire questo rischio?

Innanzitutto occorre fare una precisazione fondamentale che dovrà essere tenuta sempre presente quando si parla di prevenzione dei terremoti: in geologia esiste una distinzione tra previsione e predizione. La previsione, come già accennato, è riuscire a dire con precisione puntuale l’intensità, quando e dove ci sarà il prossimo sisma, la predizione invece è saper riconoscere quali parti del territorio italiano sono più soggette a terremoti, quale sarà l’intervallo di intensità (magnitudo) che ci si attende, quali i tempi medi di ritorno di un terremoto di intensità X e se ci saranno degli effetti di amplificazione o attenuazione delle onde (effetti di sito). La previsione quindi è ancora lontana dal poter essere messa in pratica, stante l’attuale conoscenza scientifica, sebbene si stiano esplorando campi di ricerca innovativi, come il recente satellite italo-cinese che potrebbe fornire importanti dati in merito; la predizione invece è già ampiamente messa in pratica grazie agli studi di geologia e geofisica.

Perché allora quando la terra trema con relativa violenza assistiamo a scene come quelle recenti di Amatrice/Accumuli? Lungi da noi puntare il dito contro qualcuno, ma bisogna prendere atto che in Italia manca una cultura geologica, che, se da un lato dovrebbe partire dal basso con la richiesta da parte della popolazione di “saperne di più”, dall’altro ci duole notare che dovrebbero essere lo Stato e gli enti locali a sensibilizzare la popolazione e prendere provvedimenti in tal senso, e da questo punto di vista siamo in ritardo rispetto ad altre nazioni come il Giappone o gli Stati Uniti. Occorre quindi, come sempre, una dottrina a cui facciano seguito dei provvedimenti pratici. La dottrina deve essere appunto quella di divulgare quelli che sono i rischi del territorio (non solo quelli sismici dato che viviamo in un Paese dove il rischio idrogeologico e quello vulcanico non sono per nulla da sottovalutare) e come ci si comporta in certi frangenti. Questa dottrina si può mettere in pratica attraverso dei semplici passi.

Innanzitutto se è vero che tutto il territorio italiano necessiterebbe di circa 50 miliardi di euro per la messa in sicurezza, è anche vero che non tutto il territorio ha lo stesso livello di rischio: pertanto, avendo già individuato le aree più pericolose, si potrebbe cominciare da quelle: il fascicolo di fabbricato, la microzonazione sismica,  gli interventi di messa in sicurezza di edifici vecchi, possono e devono essere cominciati da quelle zone. Questi interventi hanno certo un costo per la collettività, ma che sarebbe al di sotto  dei 50 miliardi di euro preventivati e soprattutto sarebbe molto inferiore rispetto ai 150 miliardi di euro spesi dallo Stato dal 1960 a oggi per la ricostruzione dopo i vari terremoti. Di certo un bel risparmio in chiave futura. Secondariamente, ma non meno importante, è opportuno informare la popolazione su come ci si deve comportare in caso di un sisma o di altra criticità: la Protezione Civile, presente con i vari nuclei di volontari in quasi tutti i comuni d’Italia, deve tenere dei corsi mirati in base ai rischi peculiari del territorio, deve informare la popolazione su come comportarsi durante e dopo un evento, deve mettere al corrente su quali siano i luoghi sicuri e sul piano di evacuazione in cui sono indicate le vie di fuga e punti di ritrovo . Esiste già il programma “Io non rischio” , patrocinato anche dall’Ingv, che deve essere portato nelle scuole e capillarmente, ed obbligatoriamente aggiungiamo, in ogni comune d’Italia (come già si sta facendo) cominciando da quelli situati in zone a rischio. Da ultimo, ma non per importanza, occorre che lo Stato finanzi la ricerca e le università. Sembra la solita nenia sulla mancanza di fondi per la scuola, ma la realtà è che se non si formano figure professionali nell’ambito delle Scienze della Terra, tutto quanto detto sin’ora non potrà essere messo in pratica. Il geologo è una figura professionale e come tale va riconosciuta: gli studi di microzonazione sismica vengono fatti tramite campagne di rilevamento di dettaglio sul terreno, questi, insieme al lavoro del geofisico e dell’ingegnere civile, permettono di stabilire come un sito risponderà ad una sollecitazione sismica e quindi permettono di stilare i Piani di Governo del Territorio in modo che le costruzioni, sia già esistenti sia nuove, vengano messe in sicurezza. Esiste già un primo passo in questo senso: la regione Lombardia, ad esempio, ha individuato, comune per comune, delle zone in cui è obbligatorio attenersi a certi parametri di costruzione. Tutto questo però sarà sempre più difficile se il Governo, in una scellerata campagna di revisione dei conti, continuerà nell’intento di chiudere le facoltà di Scienze della Terra accorpandole ad altre e quindi diminuendo drasticamente la qualità dell’insegnamento.

Da ultimo vogliamo ricordare che non è il terremoto a uccidere, ma la casa che crolla: siccome viviamo in un Paese in cui sismi più o meno violenti ci sono sempre stati e ci saranno sempre, è bene cominciare a conviverci e pretendere di avere una casa, o una scuola, che non crollino, invece di pretendere di sapere dagli scienziati quando e dove ci sarà il prossimo terremoto.

Paolo Mauri

 

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