Napoli, 26 nov – Cercherò di non scrivere banalità su Diego, se pur il rischio è alto, sul suo rapporto con Napoli, con il calcio. È compito arduo: di solito tutti si sentono in diritto di esprimersi su ciò che è di pubblico dominio. Tutti credono, o hanno creduto, di avere un rapporto con il divino, con il superiore. Proseliti o atei non importa, tutti hanno nominato almeno una volta nella vita “Dio”. Fosse anche solo per bestemmiare. E di bestemmie già se ne leggono a iosa.
Un “cattivo maestro” per i borghesi dell’anima
Del fermento artistico-culturale della Napoli degli anni ottanta ne scriverà De Giovanni, Buffa elaborerà il suo emotional storytelling, Lele Adani cercherà di narrare l’inenarrabile: ovvero la punizione a due in area contro la Juve, con la barriera a 4 metri. Netflix e compagnia cantante faranno record di incassi con l’ennesimo documentario, “a sinistra” diranno che era “uno di loro”, a “destra” lo giudicheranno per la sua vita al limite, i borghesi dell’anima lo additeranno come un “cattivo maestro”, i chierici dell’anti-vita lo insulteranno e basta. Salvini, Scanzi, Del Prete etc hanno già fatto a gara per pubblicare per primi sui social il post di cordoglio. Pietà.
Diego e Napoli
Piango. Mentre scrivo la mia compagna mi guarda incredula, ma cerca quasi di sforzarsi di comprendere il mio stato d’animo. Mi fa tenerezza. Non è napoletana e, in questo caso, forse è una fortuna. La mia generazione è quella che ha più rimpianti. Almeno i nostri genitori l’hanno vissuto, trasportati da quella lucida sbornia che li ha accompagnati in 7 anni di entusiasmi. E no, chiaramente non si parla solo di calcio giocato. Siamo quelli che hanno tanti amici o conoscenti che si chiamano Diego. Nati tra la fine degli ’80 e l’inizio dei ’90, siamo stati catapultati – inconsapevoli – nel vortice di un mito. Tutti noi, fin da piccoli, sapevamo chi fosse Diego, pur non ricordando di averlo visto giocare. Era il pane a tavola, onnipresente e parente. Uno di famiglia. Anche nella storia calcistica della SSC Napoli, e quindi della città, esiste un prima e dopo Diego. È misura delle cose, bilancino che oscilla tra l’inspiegabile e la passione sportiva. È stato di sicuro trasversale, totalizzante, universale, ecumenico.
Mi rendo conto che per molti potrei apparire un pazzo, ma se non si ha il senso del tragico, la sensibilità di carpire le sfumature dell’essere umano, non si potrà mai comprendere un popolo – che va oltre le latitudini del capoluogo campano – che ora piange incredulo il suo Re. Probabilmente si riverseranno per le strade, mettendo in piazza quella che in tanti chiameranno con cinico sprezzo “la sceneggiata”, tutti a dargli giù per l’irresponsabilità, “c’è il Covid, siete pazzi”, “non scendete in strada per ribellarvi e lo fate per un miliardario drogato, sveglia!”. Questo ci meritiamo in un’epoca che tutto cerca di incardinare, determinare, scientificamente e tecnicamente direzionare. Che ha l’arroganza di voler riportare sotto l’ala del raziocinio ciò che raziocinante non può e non deve essere.
Diego “nun se po’ capì”, è fuori classifica
Chi parla o scrive oggi delle vicende umane di Diego, chi – peggio – cerca di analizzare e di voler a tutti i costi capire, semplicemente non conosce la frase “nun se po’ capì”. È l’espressione napoletana che trancia ogni discorso quando si chiede una valutazione qualitativa su qualcosa o qualcuno. Se le qualità vanno oltre, semplicemente i napoletani dicono “è inutile parlarne, semplicemente è tanto di più dell’ordinario, del terreno”.
‘O masto (il Maestro) è l’espressione con cui alcuni tifosi del Napoli appellano il 10 di Villa Fiorito e che – se sono i pochi Partenopei ancora rimasti in quel ‘paradiso abitato da diavoli’ – quando si iniziano a fare discussioni su chi è il più forte calciatore di tutti i tempi sorridono fissandoti come se fossi il figlio un po’ sfigato al quale, naturalmente, si vuole bene lo stesso. Se pur con compassione, il messaggio è chiaro: Diego è fuori classifica. Non può essere abbassato al livello dei comuni mortali. Non c’è discussione.
Fate un gesto di dignità, di umiltà: è superbia pensare di poter capire l’amore degli altri. Frenate lingua e dita sulle tastiere. Ci saremo sempre noi ad affiggere uno striscione – come fu per la vittoria del primo scudetto fuori il cimitero di Napoli – con su scritto “Che vi siete persi”.
Un Partenopeo
6 comments
Poveri noi e chi ci ha dato il nome Diego…, facendoci volare molto basso! Bisogna ribellarsi a tale pochezza, se possibile. E’ su questo c’è da discutere!
Da chi ha un nonno napoletanissimo e fortunatissimo! Chiaro?!
[…] Te quiero Diego proviene da Il Primato […]
[…] Te quiero Diego […]
[…] il tempo del mondo. Per incantare vestito di Boca, Barcellona e poi Napoli. Alla celebrazione del primo scudetto partenopeo qualche buontempone, con lo stile beffardo narrato alla perfezione da Curzio Malaparte ne La pelle, […]
Bel pezzo. Nel bene e nel male Maradona è proprio così (e uso il presente perché la sua figura stereotipata va oltre i limiti individuali): fuori classifica.
Ho vissuto in sudamerica per 8 anni, proprio al confine con l’Argentina, ho conosciuto molti argentini e uruguagi, sono i nostri veri cugini, sono la comunità e discendente d’italiani più simili a noi, sono veramente nostri primi cugini, se non fratelli, quelli che più hanno mantenuto l’italianità e l’indentità italiana per il mondo; di tutte le grandi colonie di emigranti italiani sparsi per il mondo, quelli più italiani sono gli argentini, per questo quando vengono a giocare in Europa preferiscono l’Italia, ed il sud e Napoli ancor più, la passione dei napoletani, pure inel drammatizzare e portare tutto agli estremi, sono lo specchio di due comunità identitiche. Maradona poteva solo giocare in Argentina o a Napoli, lui si sentiva come a casa, il Vomero come Belgrano o Palermo, i Quartieri spagnoli come Lanus, Villa Fiorita, Boca…