Roma, 20 set – Per chi ancora non lo avesse visto, è bene chiarire subito cosa non è la nuova pellicola di Quentin Tarantino C’era una volta a… Hollywood: non è un film su Charles Manson. Per mesi il nuovo lavoro del regista americano è stato annunciato con toni scandalistici quasi fosse un’opera revisionista sul celebre “guru”, e alla fine ci si trova davanti a 2 ore e 40 dove il capo della Manson family compare soltanto di sfuggita per poi sparire per sempre. Quello che resta è grande cinema e una struggente opera revisionistica che omaggia Sharon Tate e ribalta gli accadimenti di quel drammatico agosto 1969.
Un sovrabbondante citazionismo
Chi conosce Tarantino sa cosa dovrà aspettarsi: lunghi dialoghi, deviazioni più o meno dilatate dalla trama principale, inquadrature eccentriche e focus su particolari come piedi, giacche e altri dettagli. In C’era una volta la mano del regista si vede e lascia emergere in tutta la sua urgenza il grande amore per il cinema degli anni ’50 e ’60, specie i western. Attorno al sovrabbondante citazionismo di Tarantino, ormai un suo tratto distintivo, emerge però quello che è l’aspetto più bello e maturo di questo suo lavoro, cioè la capacità di calare lo spettatore in un mondo a cui il regista guarda con nostalgia.
Gli anni sessanta rivivono attraverso una scelta vivida di suoni, particolari, atmosfere. Los Angeles resta sullo sfondo di una corsa in auto ad alta velocità, ma il regista sa immergere lo spettatore nello zeitgeist, per riprendere le parole di un personaggio, con grandiosa efficacia. Nonostante specie nella seconda parte la storia sembri arenarsi e diventare quasi noiosa, alla fine della visione quello che resta è la piacevole sensazione di aver vissuto il clima di un’epoca, di aver lasciato fuori della porta il mondo di oggi per respirare la situazione creata dal regista, concedendogli i suoi tempi. Solo pochi riescono a trasportare lo spettatore all’interno della propria creazione con tale capacità, e questo film di Tarantino ha quella sensibilità artistica e umana che lo eleva nonostante la prolissità di alcune scene. Ma questo fa parte del gioco ed è un vizio di forma perdonabile.
L’amicizia virile tra Rick Dalton e Cliff Booth
Non occorre essere dei fan sfegatati di Quentin Tarantino – e chi scrive non lo è – dunque per apprezzare il suo nuovo film. È un’opera che va gustata in silenzio e possibilmente al cinema, lasciandosi trasportare e prendendola per quello che è: cinema puro nella sua forma più limpida, senza sovrastrutture. Allora quei tempi ormai passati rivivranno nella loro vivida luce attraverso la grande prova di Brad Pitt e Leonardo Di Caprio e la bellezza dirompente di Margot Robbie.
Il cinema di Quentin Tarantino ha spesso avuto risvolti in qualche modo “etici”, ha sempre cercato di trasmettere qualcosa di positivo dietro a un linguaggio sboccato e all’ultra violenza. Anche questa volta il regista vuole trasmettere un messaggio che nella sua semplicità riesce a essere vivo e intenso, ed è l’importanza dell’amicizia. Rick Dalton (Di Caprio) e Cliff Booth (Pitt) sono due uomini che da molti anni condividono vita professionale e tempo libero, portando avanti un’amicizia virile che nella sua asciutta sensibilità sa rendersi viva e realistica. Un rapporto fatto di stima, supporto e fiducia che sul finale dovrà per forza di cose prendere una piega diversa, ma che resterà comunque nel cuore di entrambi. Fosse solo per questo, il film andrebbe visto almeno una volta.
Margot Robbie una dolce Sharon Tate
Poi c’è lei, Margot Robbie nei panni di Sharon Tate, che viene ritratta con essenzialità e sobria dolcezza, quasi a farne un’ingenua vittima designata a cui però Tarantino vuole concedere un ultimo ballo, a cui vuole fare il dono galante della lunga vita e della gioia di essere madre. È in questo beau geste che il regista riesce con potenza a compiere un atto revisionistico che diventa quasi credibile, sottolineato nel finale da una musica drammatica ed evocativa che ha il tono tragico necessario a sottolineare la virata compiuta da un artista innamorato di un’epoca e dei suoi uomini.
C’era una volta a… Hollywood è la vittoria revisionista di Tarantino sulla Manson family. L’aura leggendaria di cui è stata ammantata la comune di hippies viene smantellata pezzo pezzo mostrandone le patetiche fattezze da zombie urbani in una sequenza di grande tensione, che da sola vale l’attesa del momento. E, di nuovo, è nel finale brutale e tragico che Tarantino sceglie di condensare e compattare tutto ciò che ha dilatato e costruito fino a quel momento. Si tratta di grande cinema d’autore che pretende attenzione e comprensione, e in cambio dà intrattenimento di qualità, emozioni e vivido coinvolgimento.
Francesco Boco
4 comments
Un film senza valori bravi gli attori ma un Tarantino che come regista ,fa schifo non sarà mai come Sergio Leone.
Nel film di Caprio disprezza il cinema italiano il suo regista ha voluto così ,così come lee sputtanato ,Tarantino vergognati un film senza senso ,un senso c’era la sigaretta ????
ma di che revisione state a farneticare? quello che tarantino presume di raccontare è l’ ANTEFATTO,
ovvero quello che succede PRIMA della strage di charles manson, ovvero l’ evento che scatena la sua furia omicida e vendicativa dopo quello che dalton e booth fatto ai suoi tre membri del clan….
la sequenza finale è ambientata la notte tra l’8 e il 9 agosto 1969 (ci sono anche le date nel film) che è proprio quando avvenne il massacro di Cielo Drive, a dimostrazione del fatto che Tarantino ha voluto riscrivere gli avvenimenti di quella notte.
beh guarda che nel film “l’assalto” della Manson family si svolge nello stesso giorno in cui si svolse a casa di Sharon Tate, inoltre Tex dice la stessa battuta riportata nei verbali per Cielo Drive, quindi è molto più plausibile che sia una revisione più che un antefatto