Roma, 28 gen – Storia della caduta dell’immaginaria Linda Tarr in arte Lydia Tàr, direttrice d’orchestra e compositrice di successo, affascinante e coltissima, definita la figura più importante della musica nel suo tempo: pontifica in interviste al New Yorker, manovra i musicisti come fossero pedine, bacchetta allievi ottusi. In trasferta a Berlino, dove con la compagna ha adottato una bambina, dirige delle registrazioni (con suo scorno, soltanto in digitale e non più su disco): ma la sua infatuazione per una nuova, fatua orchestrale le fa perdere il controllo di una situazione che ha fatto di tutto per rendere ingestibile. Complice il tradimento della sua segretaria, riemergono le sue responsabilità nel crollo psichico d’una sua allieva e ammiratrice, e il filmato d’una lezione nella quale ha umiliato un ragazzo arroccato nel dogmatismo LGBT è manipolato per usarlo contro di lei.
Tàr, un capolavoro senza premi
Sei candidature e zero statuette agli Oscar del 2023, dominati da Everything Everywhere All At Once, cretinissimo baraccone sul metaverso: dall’alto del suo palmares (due Oscar vinti su otto candidature, quattro Golden Globe, due coppe Volpi; Cavaliere delle Arti e delle Lettere in Francia, lauree honoris causa in svariate università), Cate Blanchett se ne infischia. Il che nulla toglie alla vergogna di assegnare a Michelle Yeoh la statuetta (per il sopracitato Everything…): a meno che la scelta di premiare l’attrice malese (che, sapendo di essere quasi del tutto inespressiva – Il domani non muore mai è uno tra i peggiori film di 007, e lei non aiuta – ha fatto, in Everything…, quel che fanno gli attori scarsi: le faccette esagitate) sia stata dettata non tanto da incompetenza, quanto da generosità (malriposta).
Pazienza, nemmeno alla recitazione suprema di Marlon Brando in Apocalypse Now fu assegnato il sopravvalutato premio. Proprio Brando/Kurtz e il film di Coppola sono citati verso il finale di Tàr (quando Lydia percorre in canoa un fiume delle Filippine, la guida gli racconta che i coccodrilli scappati dal set di Apocalypse Now non sono più tornati).
Un film hollywoodiano contro la “cancel culture”
Scritto e diretto da un attore e sceneggiatore, Todd Field, alla sua terza prova da regista, Tàr è stato accolto da critiche feroci. Non per questioni artistiche, qualitative; bensì perché, inaspettatamente (le voci difformi a Hollywood sono poche e non libere d’esprimersi), è un duro attacco alla “cancel culture” (attorno alla quale i suoi stessi corifei stendono una coltre di negazionismo: la c.c., dicono, è un’invenzione dei complottisti – come se l’orrendo spettacolo di testi classici stralciati dallo studio accademico, personaggi storici sviliti tramite isteriche e incolte damnatio memoriae, riletture artefatte, atti vandalici non sia abbastanza plateale). Il “pensiero unico”, lo dice il termine stesso, non ammette distinzioni; e sebbene qualche babbeo omertoso provi a far credere che non esista, il “pensiero unico” è un leviatano piuttosto ingombrante. Dare dell’allucinato a chi dice che il re è nudo stavolta è più grottesco del solito.
I mesti “minion” del politicamente corretto non perdonano a Todd Field e a Tàr di averli descritti per ciò che sono: tanti minuscoli “minion” – scagnozzi, sgherri, Lydia dice “robot”. Inquadrati, conformati, automatizzati. Pavidamente feroci. Francesca (la segretaria traditrice e vigliacca di Lydia), Max (lo studente “genderfluid” e, di conseguenza, dogmatico e intollerante), Olga (la violoncellista che beneficia delle spintarelle di Lydia, per poi smalignare alle sue spalle filmandola con lo smartphone) sono i ritratti orrendamente precisi del volto peggiore della generazione “millennial” (l’esplicito bersaglio polemico della “boomer” Lydia): un branco che aggredisce di nascosto, alle spalle e che ha in odio le eccellenze.
Una grande attrice per un grande personaggio
Tàr ha dei guasti: il suo intellettualismo è parecchio autoreferenziale, compiaciuto, esibizionista (reso subito chiaro che Lydia è coltissima, le sue erudite chiacchiere potrebbero terminare dopo l’intervista iniziale; invece proseguono, senza funzione narrativa e con un po’ di tedio); la trovata di porre all’inizio i titoli di coda (per di più a ritroso) è originale ma vuota (e la cantilena che li accompagna parecchio brutta). Tàr comincia all’insegna dell’esibizione: della bravura della sua protagonista (Blanchett/Lydia che si prepara all’intervista) e della cultura musicale del suo autore (l’intervista stessa). Prosegue molto meglio, ed è senz’altro un grande film: ci si chiede se lo sarebbe con un’altra protagonista. È centrato sulla sua protagonista – intesa sia come personaggio che come attrice: Lydia Tàr è (pur egoista, boriosa, famelica) gigantesca, un titano (ancor più se paragonato ai suoi lacchè rinnegati); Cate Blanchett è la miglior attrice della storia del cinema, e questa è forse la prova migliore della sua carriera (meglio delle sue prove più note: la becera propaganda anticattolica del pessimo Elizabeth, o la chiassosa trilogia Il signore degli anelli).
Scostante, arrogante, manipolatrice, vorace, narcisista: ma anche intelligente, elegante (non solo perché benvestita), fascinosa, forte (non “resiliente”, come si usa dire), gran lavoratrice, capace di essere sia seria che ironica: Lydia Tàr è uno dei personaggi più affascinanti del cinema degli ultimi anni, perché incapace di essere mediocre. È una protagonista che non può essere comprimaria: un personaggio gigantesco mandato in malora da personaggini che sino a un momento prima si erano seduti e abbuffati alla sua mensa – ricorda uno statista italiano del quale scrivo spesso. Finché ci si affronta a viso aperto, nessuno dei suoi avversari ha scampo: si tratti di Max, lo stupidissimo studente che “si definisce BIPOC (black / indigenous / person of colour) e pansessuale” e che, in base agli stessi schemi indotti obbedendo ai quali si appone delle etichette, rifiuta Bach perché “eterosessuale e maschilista” (assieme alla moda di “definirsi” tramite parole d’ordine, uno dei tratti più idioti della “cancel culture”: rigettare per intolleranza le persone che non rientrano negli schemi del politicamente corretto), e chissenefrega se il genio di Eisenach (vissuto in un secolo, il XVIII, nel quale certe restrizioni non erano ancora state imposte) sia stato uno dei più grandi artisti di sempre; o della compagna di scuola che bullizza Petra (il solo autentico affetto di Lydia: la bambina adottata insieme alla compagna, Sharon), minacciata da Lydia in una scena già diventata “cult” (“Dio ci guarda tutti”); o infine dei parenti delle raccapriccianti vicine, che chiedono a Lydia di “non fare rumore”, ottenendo per risposta una risata in faccia e un sarcastico assolo di fisarmonica.
L’antagonista totale di Lydia è Francesca, l’assistente devota molto oltre i limiti della piaggeria (dai complimenti sulla forma fisica, al paziente servilismo con cui porge il caffè a Lydia mentre dirige le prove) e che, quando Lydia (pur di non dare ragione a un orchestrale che le sta antipatico) non la promuove, svende del materiale compromettente a suo carico. Ancor peggio del tradimento, quel che repelle di Francesca è la vigliaccheria con la quale, dopo essersi vendicata, si sottrae a un confronto con Lydia. Personaggio italiano (di cognome fa Lentini), Francesca è interpretata dalla francese Noemie Merlant, già nota per Ritratto della giovane in fiamme; quando il film fu presentato ai Cèsar, la co-protagonista Adele Haenel, su istigazione della regista del film e sua compagna, Celine Sciamma, inscenò una crisi isterica alla notizia della premiazione di Roman Polanski (che, contumace, portava un film sull’affaire Dreyfus, L’ufficiale e la spia).
I piccoli nemici di Lydia
La scena dello scontro con Max – lo studente di musica che, “identificandosi come sessualmente non binario”, non tollera lo studio di Bach, uno dei maggiori musicisti di sempre, perché era un “cisgender” vissuto nell’Europa di tre secoli fa – riassume (in un dialogo un po’ cervellotico) il peggior guaio della cultura di oggi, l’intolleranza del dogmatismo politicamente corretto. Raffigurata nel film, si è scagliata contro di esso: una raffica di critiche ha bersagliato Tàr, non in quanto film più o meno riuscito, ma perché raffigura una donna (e quella metà del cielo è, da qualche anno a questa parte, intoccabile) e per di più omosessuale, come “cattiva”. Ci sono categorie degne di odio (dilaga sempre più il rancore verso il “maschio bianco eterosessuale”) e altre da ritrarre soltanto con tratti angelicati. Donne si sono offese perché Lydia è una donna cattiva, lesbiche si sono offese perché Lydia è una lesbica cattiva, musiciste si sono offese perché è una musicista intelligente ma cattiva, femministe si sono offese perché si fa chiamare “Maestro” e non “Maestra” il che la rende più cattiva, millennial si sono offesi perché è una boomer (cattiva) che li tratta da scemi, tizi “non binari” si sono offesi perché dice a uno di loro (dopo avergli fatto un mazzo tanto) che è un robot senza pensiero né spirito.
È quindi giunto il prevedibile smacco degli Oscar: per quanto stupida sia la giuria, pur considerando che Hollywood attraversa un (interminabile) periodo di crisi qualitativa (una delle attrici più richieste del momento, Zendaya, ha proclamato i suoi cinque film preferiti: il più “antico” risale al 2007, e non sono nemmeno dei gran titoli; che le star del cinema non facciano mistero di non intendersi di cinema è una dichiarazione importante sullo stato dell’arte), non è pensabile che la scelta di preferire un baraccone imbecille come Everything, Everywhere, All at Once a Tàr, e Michelle Yeoh a Cate Blanchett, non sia stato dettato da questioni di censura. Nemmeno il cinefilo più stupido può pensare che Everything… sia un film migliore di Tàr, non lo riuscirebbe a credere nemmeno una Zendaya qualsiasi.
Quale film riceva l’Oscar è un minuscolo problema, ma è il sintomo di un grande problema. Come lo è il fatto che Lydia Tàr – la perfida Lydia Tàr, la geniale Lydia Tàr – sia un personaggio immaginario, mentre la scena musicale di oggi è affollato, nel mondo reale, da tante piccole Elodie. Stai a vedere che quando alla domanda se un bel film sia meglio della vita reale, Woody Allen rispose che anche un brutto film è meglio della vita reale, non stava esagerando col pessimismo.
Tommaso de Brabant