Milano, 4 mar – Bomi Group probabilmente finirà nelle mani dei francesi. Il fondo Archimed ha lanciato un’offerta pubblica d’acquisto sull’azienda milanese, leader internazionale nell’ambito dei servizi per la tecnologia medica e nel comparto farmaceutico. Se l’operazione andasse a buon fine, l’Italia perderebbe un altro dei suoi gioielli. Andiamo con ordine. Intanto, l’opa di ArchiMed si traduce in un’offerta per azione di 4 euro ed è soggetta ad alcune inderogabili condizioni. In primis, il raggiungimento del 90% del capitale sociale che comporterebbe l’uscita da Piazza Affari. La Borsa di Milano, si appresta ad essere ancora meno italiana. Continua, dunque, lo shopping francese a danni delle nostre imprese. Purtroppo, il peso del capitalismo d’Oltralpe sulla nostra economia è eccessivamente sbilanciato a favore di Parigi.
Bomi Group: la scalata ostile
Tuttavia, in questa vicenda ci sono altri aspetti che non possiamo trascurare. Vediamo perché. Bomi Group viene fondata nel 1985 da Giorgio Ruini. Nel giro di pochi anni riesce ad espandersi all’estero. Oggi è presente in venti nazioni dalla Francia agli Usa passando per la Turchia e la Russia: più dei due terzi dei ricavi è ottenuto fuori dall’Italia.
Una realtà tipica del capitalismo familiare che ha saputo sfruttare la globalizzazione per gestire in tutto il mondo servizi legati all’industria sanitaria. Ancora oggi è un’azienda in perfetta salute che, nel primo semestre 2018, ha visto crescere i suoi ricavi del 6% per un totale di 62,23 milioni di euro.
Tutelare le eccellenze nazionali
A questo punto la domanda è d’obbligo: come mai è finita nell’orbita di un fondo di private equity? La risposta purtroppo è molto semplice: il pesce grande mangia quello più piccolo. Oggi più che mai contano le dimensioni e i capitali da investire. Gli sforzi compiuti dalle nostre imprese nel campo dell’innovazione non bastano per preservare la loro autonomia. Abbiamo bisogno, dunque, di un ente (ad esempio Cassa Depositi e Prestiti) che agisca come un fondo sovrano per preservare l’italianità delle nostre imprese.
Non saremmo gli unici in Europa. In Germania, ad esempio, si parla della creazione di “un’autorità pubblica volta a gestire investimenti di carattere strategico in aziende tedesche che rischiano di essere scalate da concorrenti o fondi stranieri”. Se il governo non si muove in questo senso siamo condannati ad esser terra di conquista. Non basta lamentarsi dei francesi quando si comprano le nostre imprese. Come insegna il caso Parmalat, non serve a nulla piangere sul latte versato.
Salvatore Recupero
3 comments
[…] Testing, inspection, Certification, nei settori dell’edilizia e delle infrastrutture”. Il copione, purtroppo, è sempre lo stesso: le aziende italiane, seppur virtuose, hanno bisogno di essere “incorporate” da qualche gruppo […]
[…] L’ondata di privatizzazioni non risparmiò neanche l’antica salina pugliese che dal 1994 passò ad Atisale. Quest’ultima venne rilevata dalla holding italiana Salapia, che l’ha acquistata dall’Ente italiano tabacchi nei primi anni 2000. Negli ultimi cinque anni a contendersi le celebri Saline di Margherita di Savoia c’erano le principali concorrenti da Salinen Austria alla tedesca Sudsalz passando appunto per i francesi di Salins che alla fine hanno avuto la meglio. Ormai siamo abituati a notizie di questo tipo. Le privatizzazioni e l’assenza di una classe imprenditoriale degna di questo nome hanno messo un’intera nazione nelle mani delle multinazionali straniere. […]
Questo é il frutto del neoliberismo