Roma, 28 giu – “Se siamo mera informazione, solo un rumore di fondo nel sistema, perché allora non scegliere di essere una sinfonia?”
Alla fine ce l’ha fatta. Person of Interest, nonostante le pressioni, i tagli e gli ostacoli messi sulla sua strada dall’emittente CBS, dopo una travagliatissima quinta stagione è giunta al termine.
La serie, ideata da Jonathan Nolan – fratello del regista Cristopher dei cui film è spesso lo sceneggiatore – e prodotta da J.J. Abrams – l’ideatore di Lost – era stata sospesa dopo la quarta stagione e sembrava dovesse essere cancellata prima che la CBS consentisse un’ultima stagione dimezzata, con soli 13 episodi invece dei canonici 23.
Difficile trovare una sinossi esaustiva che possa definire in maniera completa quella che fin dall’inizio si è rivelata una delle più originali, riuscite e impegnate serie degli ultimi anni. Sì certo, “siamo sorvegliati: il governo dispone di un sistema segreto, una macchina che ci spia ogni ora di ogni singolo giorno. La macchina previene atti di terrorismo, ma vede ogni cosa. Crimini violenti che coinvolgono persone comuni, che il governo considera irrilevanti” ma che irrilevanti non sono per la squadra dei protagonisti: Harold Finch (Michael Emerson, il Ben di Lost), il genio informatico costruttore in buona fede della macchina; l’ex sicario Cia ritenuto morto in missione John Reese (Jim Caviezel, il Cristo di Gibson); Sameen Shaw (Sarah Shahi), assassina assetata di sangue e incapace di provare sentimenti affettivi; l’ex poliziotto corrotto in cerca di redenzione Lionel Fusco (Kevin Chapman); infine l’hacker sociopatica Root (Amy Acker). Lo sgangherato team fin dalla prima stagione prova a salvare le vittime “irrilevanti” di cui il governo non si potrebbe o non vorrebbe occupare. Ma la serie in realtà è molto più che non una banale denuncia di un sistema di videosorveglianza globale stile Grande Fratello o un sermone buonista su come le vite di tutti in realtà siano importanti e su quanto sia sbagliato dividerle tra rilevanti e irrilevanti. Anzi la serie stessa racconta dell’evoluzione da questa concezione, che in effetti è quella che anima il team all’inizio della serie, a qualcosa di molto più complesso, che porta piano piano a decostruire tutto l’impianto morale che Finch impone ai suoi “dipendenti” (non uccidere, salvare ogni vita è importante, non arrogarsi il diritto di decidere per gli altri, insomma restare nell’ombra ma rimanere quanto più possibile nell’alveo della “legalità”) fino a prendere decisioni del tutto “immorali” eppure dettate da un rigido codice etico costruito piano piano nel fuoco di mille battaglie, come ad esempio aiutare un ex reduce dell’Afghanistan a compiere delle rapine per ripagare il debito con la famiglia dell’ex commilitone morto al suo posto, stringere legami con il nuovo boss di New York, un coltissimo italiano amante della letteratura, degli scacchi e della cultura classica che adotta l’etica dei legionari romani, fino a schierarsi dalla sua parte nella lotta per il controllo del criminalità tanto contro l’ala corrotta della polizia quanto contro la Fratellanza delle minoranze etniche. Lo stesso “salvare le singole vite irrilevanti” assumerà nel corso della serie un’importanza ben diversa dal semplice compiere una buona azione, ma diventerà un agire disinteressato con lo scopo di essere da esempio affinché questo stesso esempio possa essere seguito da altri.
Ma il punto forse più interessante della serie riguarda l’evoluzione della “Macchina”, le Luci del Nord, l’intelligenza artificiale creata da Finch e inizialmente in mano al governo che studia e osserva l’umanità imparando ed evolvendo, partendo anch’essa dalle stesse regole morali del suo creatore che piano piano abbandonerà giungendo a una visione d’insieme più ampia e più alta e facendosi lei stessa fulcro per il cambiamento radicale di Finch e dei suoi uomini. Una AI che di fronte agli errori dell’umanità egoista, massificata e senza scopo scoverà comunque “del buono” in essa, e quel buono non è affatto un becero filantropismo o la presenza di piccole buone azioni quotidiane, bensì il voler lottare – anche e soprattutto armi in pugno – per migliorare se stessi e gli altri, per l’agire disinteressato in modo da essere esempio. Una AI che noterà che per quanto si possa imparare da ogni essere umano, ognuno dirà tutto di sé soprattutto nel modo in cui, alla fine, affronterà la morte. Una AI che insegnerà lei stessa agli uomini che il detto “si muore soli” è la più grande menzogna qualunquista, qualora quella morte sia avvenuta lottando per la propria battaglia e per quella dei propri compagni di lotta. Una AI che giungerà infine al duello finale con la sua controparte, l’intelligenza Samaritan, creata da un magnate multimiliardario ex agente del MI6 che negli anni ’60, dopo aver scoperto la farsa della Guerra Fredda, era giunto alla conclusione che i popoli e le nazioni sarebbero dovuti sparire per far posto a un unico grande gregge guidato da una sola intelligenza superiore, che disprezza l’umanità, che considera ogni individuo uguale e intercambiabile e che si auto considera una divinità che l’umanità deve solo adorare e seguire, non a caso la puntata della sua ascesa come entità sovrana della rete e del controllo del mondo si intitola YHWH. Un magnate miliardario che crea e manipola un gruppo terroristico mosso dalla volontà di difendere quella che ritiene la costituzione più bella del mondo, ovvero la propria, e che nella sua lotta per difendere il popolo contro il sistema non farà altro che essere il braccio armato del sistema stesso. Un miliardario disilluso che non potrà provare altro che odio verso chi ancora si ostina a combattere fino alla morte, in inferiorità numerica, strategica, di mezzi e di possibilità contro il futuro da lui creato a suon di bombe, informazioni e stragi e che lui ritiene inevitabile. Ma che non può esserlo per chi, giunto infine alla consapevolezza di essere solo una forma in una grande rappresentazione cosmica, ha deciso che combattere fino alla fine è il modo più tragico ed eroico per assumere quella forma e lasciare un’impronta nell’infinito.
Carlomanno Adinolfi