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Stellantis, un flop anche negli Usa: ecco come vanno i marchi oltreoceano

by Flavio Bartolucci
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Elkann-Agnelli

Roma, 31 ago – Il dibattito politico e industriale su Stellantis in Italia sembra gravato da un certo provincialismo. O almeno vengono scosì riassunte le vicende relative all’Alfa Romeo Milano poi diventata Junior, o alle bandierine tricolori della Topolino elettrica prodotta in Marocco. Entrambi casi dove si è scontrato il governo contro la multinazionale dell’auto. Complice il fatto che due tra i principali quotidiani italiani come Repubblica e La Stampa siano controllati dal Gruppo GEDI, società della galassia Exor, la cassaforte degli Elkann-Agnelli. Una stampa non certo tenera con il governo Meloni. E alla fine il dibattito sui piani industriali del gruppo automobilistico diventa la solita querelle destra-sinistra all’italiana, facendo passare in secondo piano le reali vicende industriali (vedi il caso del fiore all’occhiello della robotica industriale COMAU).

Un marchio in cui contiamo pochissimo

Discettare delle strategie di Stellantis è da provinciali, d’altronde il conglomerato franco-italiano è un marchio globale in cui l’Italia ha ormai un peso relativo. Meno produzione in Italia perché gli italiani comprano sempre meno auto. «La gente compra sempre meno auto e tende a cambiarle con sempre meno frequenza.» così riassumeva il pensiero del CEO Tavares Il Post ad aprile. Ma visto che Stellantis è un player globale e visto che nel portafoglio marchi abbondano i marchi statunitensi, ovvero Chrysler, Jeep, Dodge e Ram, andiamo a ragionare su quello che dovrebbe essere (almeno storicamente) uno dei mercati principali del gruppo che oggi raccoglie l’eredità della terza big three di Detroit. Guardiamo come va Stellantis non dal punto di vista dei nostalgici di Fiat, Lancia e Alfa Romeo, ma dal paese delle muscle car e dei pick-up.

Stellantis negli Usa

Stati Uniti dove non sono mancati recenti attriti, sia con i sindacati che con parte degli azionisti. Il 16 agosto alla corte federale di Manhattan un gruppo di azionisti ha citato in giudizio la multinazionale in merito alla comunicazione dei risultati (cosa non così infrequente da quelle parti). E persino Frank B. Rhodes, Jr., il bisnipote del fondatore della Chrysler, periodicamente torna a farsi sentire in merito alla gestione del marchio. Ed effettivamente guardando i numeri grezzi delle immatricolazioni i marchi statunitensi di Stellantis non hanno brillato nell’ultimo periodo: nel 2018, anno della morte di Sergio Marchionne complessivamente la fetta di mercato di FCA negli Stati Uniti era del 12,64 %, una quota scesa nel 2023 poco sotto il 10 %. Dei quattro marchi Chrysler, Jeep, Dodge e Ram, solo i pick-up e veicoli commerciali leggeri con il marchio Ram hanno mantenuto la stessa fetta.

Facendo riferimento a un sito come Good Car Bad Car – Automotive Sales Data e guardando i dati di vendita negli ultimi anni è possibile avere un quadro generale di come andavano i marchi USA del gruppo Fiat ai tempi di Marchionne. E se effettivamente ai tempi del manager famoso per i suoi maglioncini le cose per Chrysler, Jeep, Dodge e Ram andassero meglio di oggi.

Per semplificare facciamo riferimento a tre anni cruciali. Partiamo dal 2011 anno in cui si completa il passaggio del Chrysler Group nell’orbita torinese. (Nel 2007 Chrysler era stata ceduta da Daimler a un fondo di investimento. Poi il Chrysler Group aveva dichiarato il fallimento nell’aprile 2009 e Fiat nei mesi successivi aveva rilevato il 20 % delle quote, per poi arrivare al 58.5% nel gennaio 2012, e infine completando l’acquisizione nel 2014 dopo aver rilevato le ultime quote del sindacato UAW). Poi il 2018 l’anno della morte di Sergio Marchionne e infine il 2023, a due anni dalla fusione tra Fiat-Chrysler e il francese gruppo PSA, e ultimo anno di cui si hanno a disposizione i dati completi delle immatricolazioni annuali.

Jeep nel 2011 vendeva 419.349 vetture, corrispondenti a al 3,24 % del mercato. Nel 2018 dopo la cura Marchionne era più che raddoppiata arrivando a 973.227 vetture con il il 5,60 % del mercato. Nel 2023 Jeep è scesa a 641.166 vetture con una fetta del 4,13 %.

Chrysler nel 2011 era a 221.346 vetture con l’1,71 % del mercato. Nel 2018 era scesa a 165.964 vetture nel 2018 con l’0,96 %. Discesa continuata anche nel 2023 con sole 133.839 vetture e lo 0,86 % del mercato.

Dodge nel 2011 partiva da 463.296 immatricolazioni, una fetta del 3,59 %. Nel 2018 era sostanzialmente stabile a 459.324 vetture, scesa però al 2,64 % del mercato. Oggi è a 199,453 con l’1,31 %.

La cura Marchionne che non bastò

Ram (fino al 2010 sotto il marchio Dodge) nel 2011 era a 245.454 mezzi con l’1,90 %. Nel 2018 era salita a 597.368 per un 3,44 % di market share. Nel 2023 è la volta di 539.477 tra pick-up e veicoli commerciali leggeri per un 3,47 % l’unico marchio in leggero calo ma ad aver mantenuto la sua fetta di mercato raggiunta dopo la cura Marchionne.

Cura Marchionne che per Dodge e Chrysler aveva realizzato solo due brevi fiammate di vendite già esaurite nel 2018. Una prima fiammata per Chrysler nel 2012 con 334.975 e il 2,15 % di market share e una per Dodge nel 2013 con 595.743 immatricolazioni e il 3,80 % del mercato, risultati che però si erano riportati rapidamente a livelli più bassi.

Certo quelli che abbiamo visto sono numeri grezzi che non tengono conto di Centro America e Sud America dove Fiat resta molto forte. E le fluttuazioni di un marchio dipendono chiaramente dai singoli modelli di veicolo, il cui sviluppo richiede anni. Modelli sviluppati (e soprattutto non sviluppati lasciando libere segmenti di mercato) figlie di strategie anche dell’era Marchionne vedi il caso di Chrysler che oggi produce solo il minivan Pacifica (venduto come Voyager nei modelli entry level) dopo la cessazione della 200 nel 2017 e della 300 nel 2023. Al Pacifica si dovrebbe affiancare la nuova Airflow nel 2025.

Anche per Dodge è un periodo di transizione, il modello Hornet (variante della Alfa Romeo Tonale) non ha avuto il successo sperato e rischia di replicare il flop Dodge Dart dell’era Marchionne (la Dart venne presentata negli Stati Uniti, tradizionalmente un mercato che predilige i cambi automatici, con il primo lotto di vetture disponibili solo con cambio manuale) ed è uscita di produzione la storica Charger (in produzione dal 2005) e della Challenger che saranno entrambe rimpiazzate dalla nuova Charger solo da poco ordinabile.

Però è indubbio che il market share totale di Jeep, Dodge, Ram e Chrysler è sceso negli Stati Uniti di più di punti negli ultimi cinque anni. Allo stesso modo il tentato rientro dei marchi italiani negli States voluto da Marchionne è ormai una storia passata. Alfa Romeo, tornata negli USA nel 2015 nel 2018 aveva raggiunto i 23.800 vetture con una fetta dello 0,14 %. Scesa a 10.897 vetture con lo 0,07 % nel 2023. Fiat sul mercato americano dal 2011 aveva nel 2018 15.521 vetture con uno 0,09 % (il record lo raggiunse nel 2014 con poco più di 46.000 immatricolazioni). Nel 2023 appena 602 vetture con un market share alla terza cifra decimale.

Insomma guardando fuori dal Belpaese in un altro dei mercati storici dei brand di Stellantis la situazione non brilla di certo. Un elemento che dovrebbe far preoccupare anche chi “provinciale” non è, come lo stato francese che attraverso la banca d’investimento pubblica Bpifrance controlla il 6 % di Stellantis. Perché negli Stati Uniti non si vendono le tanto disprezzate utilitarie come in Italia, vetture che agli amministratori delegati piacciono poco perché c’è poca marginalità sulla singola immatricolazione, bensì pick-up, grossi SUV e grosse berline che hanno margini più alti. Ergo domandarsi delle strategie di Stellantis, non è affatto una questione da provinciali.

Flavio Bartolucci

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