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“Sovvertire il tempo” per rivoluzionare l’esistente: sul nuovo libro di Giovanni Damiano

by Adriano Scianca
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Roma, 17 ott – Giovanni Damiano è da anni, ormai, una delle intelligenze più vivaci e acute della cultura non conformista. Il suo Elogio delle differenze, testo ormai datato, in puro senso cronologico, resta ancora oggi la migliore critica filosofica della società multirazziale mai formulata, degna di nota anche per aver messo al centro del discorso un tema davvero cruciale: la non “inevitabilità” del nostro sfiguramento etnico. Aspetto essenziale, che costituisce il vero fil rouge delle opere del pensatore salernitano (tutte edite dalla Edizioni di Ar): il suo L’Espansionismo americano. Un “destino manifesto”? mirava a “decostruire” la credenza della potenza oggi egemone di essere messianicamente destinata al dominio globale; i suoi scritti evoliani (La filosofia della libertà in Julius Evola, Per un’altra modernità. Scritti su Evola) hanno invece riscoperto Evola come filosofo della libertà ontologica, quindi anche della libertà storica, pur affrontando criticamente alcuni aspetti della “scelta delle tradizioni” proposta dal pensatore tradizionalista; L’emozione genealogica, infine, ha evidenziato la complessità, ma anche la fecondità, delle tracce genealogiche sempre “riattivabili”, oltre le strettoie di un percorso “già scritto”.

Il suo ultimo saggio, appena dato alle stampe, di nuovo per la casa editrice di Franco Freda, fa il punto su tutta la questione, fissando la cornice teoretica fondamentale relativa al tema dell’origine e del suo (sempre) possibile nuovo inizio. Il libro si intitola Sovvertire il tempo, e già dal titolo mette al centro del discorso la questione dello Zeit-Umbruch, la “rottura del tempo della storia” tanto cara a Giorgio Locchi. Proprio Locchi, insieme a Nietzsche, Heidegger e Baeumler, delimita il perimetro filosofico all’interno del quale si muovono i lapidari (a volte troppo…) testi raccolti nel saggio. Argomento e riferimenti possono certo sembrare per addetti ai lavori, e in parte è così, dato che questo è sicuramente il testo più “difficile” della produzione di Damiano.

La portata intrinsecamente “politica” del tema dovrebbe comunque essere chiara, se non dai tempi di Heidegger stesso, che ne fece il cuore del suo complesso itinerario filosofico nella rivoluzione conservatrice e poi nel nazionalsocialismo, almeno a partire dal già citato Locchi, che faceva della concezione del tempo uno degli spartiacque tra visione del mondo egualitaria e fascista. Di fascismo, nel testo di Damiano, non si parla, né si accenna a temi esplicitamente politici, nel senso corrente del termine. L’argomentazione del pensatore, invece, ruota attorno a due punti focali: l’origine e il nuovo inizio. L’irrompere dell’origine nella storia è proprio ciò che non la rende “chiusa”, allineata su binari inamovibili, quanto piuttosto eternamente aperta alla possibilità del nuovo inizio. In questa complessa dinamica, spunta però, all’improvviso, il tema del corpo, a parer nostro vero perno dell’intero discorso, nonché argomento che cela in sé proprio quell’aspetto propriamente politico di tutto l’argomentare di Damiano.

Il corpo è il terreno dove si affrontano le due scuole dell’allevamento dell’umano, come insegnava Nietzsche: quella del prete (inteso come figura idealtipica, a cui oggi si potrebbe benissimo sostituire l’intellettuale immigrazionista) e quella dei “nuovi barbari” vaticinati dal filosofo tedesco. La creazione dell’ultimo uomo o la creazione del Superuomo, per dirla secondo la grammatica zarathustriana. La tematica del corpo permette al discorso su origine e nuovo inizio di non essere astratto, intellettualistico e, men che meno, sradicato, come vorrebbe certo nietzscheanesimo postmoderno: se la patria, per Nietzsche, non è più “terra dei padri”, ma “terra dei figli”, permane tuttavia un legame di filiazione, c’è una “materialità” situata, biologicamente determinata, su cui si esercita e a partire dal quale si può sprigionare la potenza del nuovo inizio. Non è un caso se, storicamente, la biopolitica novecentesca si sia spesso accompagnata alla preoccupazione di “far rivivere” la vigoria di un tipo umano “del passato”, tipica illusione prospettica del tempo “sferico”, laddove invece si tratta appunto di un progetto per l’avvenire. Tematica quanto mai “scorretta”, oggi, e declinabile ufficialmente solo in termini “immunitari”, cioè di protezione dell’individuo, non certamente “comunitari”, ma pure serpeggiante fra le pieghe del politicamente corretto. Ma per sovvertire il tempo bisogna sempre e comunque avere il coraggio di sovvertire anche il “senso comune” che dalla temporalità dominante è plasmato e condizionato.

Adriano Scianca

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