Roma, 4 mar – Difficilmente nella storia dei partiti e degli ambienti politici internazionali si può trovare tanto livore antipatriottico come nella cosiddetta sinistra italiana. Sin dalle loro origini, movimenti e partiti di sinistra hanno cavalcato la polemica contro il popolo italiano e i suoi vizi atavici, in nome di «ideali universali» d’importazione, con risultati che ancora scontiamo sulla nostra pelle. Uno dei casi più clamorosi risale alla Prima guerra mondiale, quando il Partito Socialista Italiano si schiera contro l’intervento del nostro Paese nel conflitto: molti di loro dicono «non aderire, non sabotare» alimentando al contempo il sogno, al motto «proletari di tutti il mondo unitevi», dell’unione internazionale di classe contro i nazionalismi. Peccato che nessun partito socialista europeo seguì l’esempio, fattore che contribuì a mettere in ridicolo la propaganda anti-patriottica di uomini del PSI come Matteotti, mentre migliaia di soldati combattevano per difendere i confini della nazione.
Come se non bastasse, al termine del conflitto i socialisti si distinsero per le offese ai reduci e una serie interminabile di agitazioni, occupazioni e violenze. Quel periodo sanguinoso, noto come «biennio rosso», originava dal tentativo di fare una rivoluzione sull’esempio della Russia del 1917. La fascinazione verso Mosca portò alla nascita del Partito Comunista d’Italia nel 1921, con il preciso scopo di aderire ai 21 punti dell’Internazionale comunista promossi da Lenin. A spazzare via i sogni rivoluzionari ci pensò il giovane movimento fascista, che in pochi anni distrusse gli avversari sia sul piano “fisico” che ideologico. Successivamente si aprì un raro periodo in cui nel nostro paese la tematica nazionale andò di pari passo con quella sociale: reduci e uomini d’ordine convivevano con sindacalisti rivoluzionari e intellettuali come Giuseppe Bottai, in nome di una terza via puramente italiana, connotata da corporativismo e socializzazione. Con il ritorno dei comunisti e la fine del conflitto si rifece vivo l’antico odio per la nazione. La furia ideologica si manifestò nella guerra civile e nella «strategia della tensione» messa in atto con gli attentati partigiani, mentre chi parlava di concordia nazionale come Giovanni Gentile venne brutalmente assassinato. In nome dell’ideale comunista le stragi colpirono anche i “moderati” antifascisti, come a Porzus.
Nel dopoguerra, oltre alle rappresaglie partigiane, arrivò un convinto appoggio a Tito, testimoniato dalle incredibili parole di Togliatti: «È assurdo pensare che il nostro partito accetti di impegnarsi in una lotta contro le forze antifasciste e democratiche di Tito. In questo senso del resto la nostra organizzazione di Trieste ha avuto da me personalmente istruzioni precise: la sola direttiva da darsi è che le nostre unità di partigiani e italiani di Trieste e della Venezia Giulia collaborino in modo più stretto con le unità di Tito». Questo atteggiamento contribuì a stendere un velo sul dramma delle foibe e sul successivo esodo italiano dalla Venezia Giulia. Non solo, gli esuli vennero spesso accolti con sputi e insulti dai comunisti, che li bollavano perlopiù come fascisti in fuga dal «paradiso comunista». Solo dopo più di 50 anni e con la caduta del Muro di Berlino si è riuscito a parlare di questa profonda ferita nazionale, occultata in nome della solidarietà internazionale del PCI con la Jugoslavia e il comunismo internazionale (e ancora oggi minimizzata da circoli fuori dalla storia come l’ANPI).
Alla luce di questa vicenda, è facile capire come i comunisti italiani di Togliatti, ospite in Russia per lungo tempo negli anni del fascismo, seguissero pedissequamente ogni indicazione ideologica proveniente da Mosca, che ricopriva inoltre di rubli il partito. Sono gli anni in cui esporre un tricolore veniva considerato quasi un reato e un’apologia di fascismo. Ben inseriti nei gangli della cultura, dell’accademia e della magistratura, i militanti comunisti contribuirono a far lievitare l’autorazzismo antinazionale, in nome della lotta di classe e della rivoluzione comunista. Nelle manifestazioni giovanili, anche Mao poteva diventare un simbolo, invece che Mazzini, Oriani, Garibaldi. Le prime crepe all’ortodossia ideologica del PCI, da parte soprattutto della corrente “migliorista”, non arrivarono nel segno di un sano orgoglio nazionale, ma strizzando l’occhio all’altra superpotenza: gli Stati Uniti d’America. Negli infuocati anni ‘70 cominciò la lenta strategia d’avvicinamento di alcuni esponenti comunisti verso i liberal americani e uomini d’alto livello della politica a stelle e strisce. Giovanni Amendola si incontrò più volte con Brzezinski, stratega del Pentagono, studioso dell’URSS e in quel periodo presidente della Commissione Trilaterale. Sergio Segre ebbe rapporti con ambienti americani attivi a Roma (come il diplomatico Robert Boies) così come il suo successore agli affari esteri del PCI Giorgio Napolitano. Il suo viaggio in USA ai tempi del sequestro Moro fu clamoroso, tanto come le sue parole distensive verso la NATO e la sua visita al CFR. Duane Clarridge, all’epoca “capostazione” CIA a Roma, ha parlato addirittura di un’infiltrazione organica dei servizi americani all’interno del partito comunista, in cui diversi esponenti «sbavavano per entrare al governo».
L’occasione arrivò dopo gli intensi anni ’80, segnati da un leader sovranista come Craxi, alfiere di uno dei pochi «socialismi tricolori» secondo Giano Accame e non a caso odiato dai comunisti. Siamo nei primi anni ’90, in prima fila nel PCI ci sono Occhetto e Napolitano, il «comunista preferito di Kissinger», che hanno compiuto un viaggio negli States nel 1989 incontrando il gotha politico e economico americano. Lo scompaginamento della prima Repubblica dettato dagli scandali di Tangentopoli è la ghiotta occasione per il più grande partito della sinistra italiana, che viene risparmiato dalle inchieste. Il protagonista giudiziario Di Pietro, che ha contatti con il “falco” USA Michal Ledeen, una volta lasciata la toga verrà eletto in parlamento con l’appoggio della sinistra.
Dopo la parentesi Berlusconi, finalmente l’ex PCI arriva al potere. Ma quello di cui parliamo non è più una forza sociale, ma un partito mutato geneticamente, sempre più plasmato sul modello dei democratici americani. L’unica continuità è nell’impostazione antinazionale: i cavalli di battaglia sono i diritti umani, l’europeismo “senza se e senza ma” e le liberalizzazioni che demoliscono il patrimonio industriale italiano. Prodi, uno dei presenti al celebre incontro sul panfilo «Britannia», svende letteralmente l’IRI, con le banche americane che incassano laute consulenze. Una continua politica suicida che perdura fino ai giorni nostri: politiche di genere e diritti civili sono le pallide battaglie ideologiche per nascondere il totale abbandono a cui sono lasciati i lavoratori italiani e l’interesse nazionale.
Una nutrita critica proveniente dalla stessa sinistra (Bagnai e Gallino tra gli altri) ha da tempo messo in luce le ipocrisie di una classe dirigente totalmente svenduta al livellamento della globalizzazione e allo straniero, sia esso a Washington o a Bruxelles. Napolitano è rimasto protagonista, prima avallando la guerra in Libia, clamorosamente lesiva dei nostri stessi interessi, poi orchestrando un “colpo di Stato dolce” (per dirla alla Tremonti) per scalzare Silvio Berlusconi. Il tutto a favore del “tecnico” Monti ma soprattutto dell’ormai abituale alleato: la democrazia USA, ancora meglio se con il primo presidente nero (cioè “buono” secondo il PD-pensiero) Obama. Guerre “umanitarie”, investitori esteri, modello sociale anglosassone, complessi d’inferiorità verso lo straniero, diktat europei, immigrazione selvaggia: tutto, purché non questa «rozza» e «razzista» Italia.
Agostino Nasti
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