Roma, 29 ago – Il rapporto tra Usa e Israele a questo punto della guerra merita una riflessione. Rapporto contraddittorio, senza dubbio ipocrita, ma difficilmente eludibile, viste i palesi ossimori che caratterizzano le relazioni ufficiali. Palese che oltre l’ufficialità ci sia la sostanza, che poi è quella che conta davvero. Ma, in ogni caso, il fatto che Washinginton sanzioni i coloni israeliani per le violenze in Cisgiordania, per quanto “atto teatrale”, mostra comunque di avere un significato.
Usa e Israele, amici per sempre, anzi no, anzi forse
Il titolo del paragrafo è volutamente forzato, nessuno mette in dubbio la stretta interdipendenza tra i due Stati. Però le sanzioni che gli Usa hanno – di fatto – comminato a Israele. o meglio ai coloni israeliani per le violenze contro i palestinesi in Cisgiordania non può non produrre qualche riga in più di una semplice “presa d’atto” della situazione. Washington chiede all’alleato di pretendere maggiori responsabilità dai suoi cittadini quindi in pratica lo ritiene direttamente responsabile. Dall’altro lato, non si sogna minimamente di interrompere il sostegno militare a Tel Aviv (nei sogni isralieani “Gerusalemme”).
Insomma, un colpo al cerchio e uno alla botte. Se il portavoce del dipartimento di Stato Matthew Miller afferma a chiare lettere che “la violenza estremista dei coloni in Cisgiordania causa intense sofferenze umane, danneggia la sicurezza di Israele e mina le prospettive di pace e stabilità nella regione”, qualche idea in più su questo cerchiobottismo possiamo pure farcela. Miller, in buona sostanza, sanziona gli israeliani per la stessa sicurezza di Israele. Un livello di confusione tale non può non strappare perfino qualche risata.
Nel mentre, Benjamin Netanyahu è così esaltato dalla premura dell’amministrazione Biden da aver criticato duramente le sanzioni. Chissà quanto dureranno, chissà quanto saranno teatrali, tutti dubbi legittimi e forse anche scontati. Ma intanto la celebrazione del contrasto domina serena tra statunitensi e israeliani.
Washington non sa più che pesci prendere?
Stante l’ovvietà che, a meno di rivoluzioni culturali – e forse anche guerre civili – il sostegno di Washington a Tel Aviv non sarà mai messo in discussione, è chiaro che i gruppi dirigenti della politica estera statunitense si trovino in uno stato di palese imbarazzo. Questo perché l’immagine “pacifica” che forzatamente diffondono a livello globale diventa difficilmente sostenibile quando il proprio “protetto” in Medio Oriente commette stragi continue, condannate più volte sia dalla Corte dell’Aja che dall’Onu . Per carità, non che lo sia mai stata, a meno di non essere davvero ingenui (ci vuole davvero coraggio e faccia tosta, ormai a credere alle “esportazioni della democrazia” e agli Stati Uniti come potenza pacificatrice mondiale, dopo gli ultimi trent’anni tra Kosovo, Afghanistan, Iraq, Siria e Libia).
Ma anche dover ricorrere a un’azione come questa – ci interessa poco quanto sia teatrale, lo ripetiamo – è sintomo di un’evidente difficoltà nel tenere una politica coerente sulla complicata situazione mediorientale.
Stelio Fergola