Roma, 30 ott – La ripresa c’è, non c’è, forse si, #italiariparte, il Pil cresce e via discorrendo. E’ almeno dal 2008 che si va cercando la luce in fondo al tunnel e la crescita sembra sempre essere a portata di mano. Salvo poi sparire una volta che dalle previsioni si passa ai conti consuntivi, che hanno sempre offerto una realtà molto più a tinte fosche.
Ma questa ripresa?
Il caso non sembra però essere quello di questi giorni. I dati sono, innegabilmente, positivi. E giocano a favore di chi – specie il governo Renzi – punta finalmente a poter tagliare il nastro dell’avvenuta ripresa. Il Pil è dato in crescita e nel corso del 2015 potrebbe addirittura toccare il +1%, la disoccupazione ha finalmente arrestato la sua crescita e la fiducia di consumatori ed imprese, rileva l’Istat, è tornata ai livelli pre-crisi.
Perché la ripresa
Assumere un atteggiamento negativo sarebbe negare l’evidenza. Altro conto, tuttavia, è indagare a fondo sulle cause che spingono i dati macroeconomici verso l’alto. Indubbiamente, il calo del prezzo del petrolio fa la parte del leone: il crollo delle quotazioni del greggio ha dato una spinta non indifferente visti gli effetti pervasivi e quotidiani dell’utilizzo dell’oro nero e dei suoi derivati in pressoché qualsiasi attività. Altra buona mano è arrivata dal Quantitative Easing varato dalla Banca centrale europea a marzo: il calo dei rendimenti nei titoli di Stato rende i conti pubblici decisamente più sostenibili, allargando le maglie per quel poco di spesa in più che, in un contesto di asfissia, è puro ossigeno.
Una ripresa non strutturale
I fattori principali alla base della ripresa, come si vede, sono decisamente esogeni rispetto al sistema-Italia. E non è detto che durino. La guerra dei prezzi del petrolio sta già facendo più di una vittima (Arabia Saudita e Russia, costrette a bilanci in deficit, in primis) e non potrà durare, suggeriscono gli analisti, oltre il 2016. Lo stesso dicasi per il Quantitative Easing targato Draghi, che durerà sino ad insindacabile giudizio della Bce, ma secondo previsioni almeno per tutto il prossimo anno. Peraltro, gli effetti del Qe si stanno al momento registrando solo sui rendimenti di Bot e Btp: solo una minima parte della massa di denaro stampata dall’Eurotower sta finendo in prestiti alle imprese, segno che le banche ancora temono ad investire.
L’elemento che accomuna petrolio e ondate di liquidità è il fatto di essere tutto tranne che eventi strutturali. La loro presenza è infatti solo transitoria, per cui è lecito aspettarsi una progressiva riduzione degli effetti benefici che stanno attualmente apportando.
Dall’altra parte, invece, permangono criticità non di second’ordine. A partire dalla domanda interna, che nonostante alcuni piccoli segnali è sempre in netta sofferenza. E senza domanda interna, stanti anche le difficoltà cui sta andando incontro la Cina, puntare alla ripresa solo sulla componente estero è troppo rischioso. Analogo discorso sulle criticità vale anche per il settore industriale: è vero – come detto – che la fiducia è ai massimi, ma settori trainanti come quello dell’edilizia sono ancora ben lontani dal recupero di valori accettabili, come segnalato dall’Ance non più tardi della scorsa estate. E l’edilizia rappresenta un formidabile produttore di indotto, che va dai cementi agli infissi, dagli arredi a soprattutto manodopera.
In virtù del carattere congiunturale dei presupposti agli attuali trend, è difficile dunque pensare che – così strutturata – la tanto attesa ripresa possa durare. In questa situazione basta infatti un minimo alito di vento contrario per far cascare la fragile impalcatura. L’Italia forse riparte, ma se lo farà non sarà certo merito del governo. Che, anzi, non sembra nemmeno stare sfruttando il favorevole periodo.
Filippo Burla