Roma, 11 nov – Il tema della remigrazione è diventato una delle proposte politiche più conosciute dei movimenti identitari europei. Tale proposta si basa sull’idea di poter invertire il fenomeno dell’immigrazione nei territori degli Stati europei, favorendo il ritorno delle persone nei paesi d’origine. Pur essendo apprezzabile la spinta volontaristica alla base di questa proposta – specialmente in un contesto in cui fatalismo e rassegnazione verso i “frutti marci” della modernità sono, in parte, diffusi nella nostra area – è necessario fare alcune osservazioni in merito. Occorre, infatti, riconoscere e correggere eventuali errori che potrebbero compromettere la narrazione sottostante questa proposta.
Il difetto sovranista
I giovani che frequentano i social di ultima generazione conoscono bene il fenomeno mediatico generato da un video diventato virale lo scorso maggio, in cui un gruppo di giovani tedeschi canta, durante una festa, “Deutschland den Deutschen, Ausländer raus” – ovvero, “Germania ai tedeschi, fuori gli stranieri” – sulle note della canzone L’amour Toujours di Gigi D’Agostino. Questo riferimento pop non è riportato per un legame diretto con il tema della remigrazione, ma per evidenziare il rischio di cadere in quello che possiamo definire il “difetto nazionale” dell’identitarismo. Chi affronta il tema della remigrazione a un livello elevato, in Europa, tende infatti a preoccuparsi solo delle problematiche legate all’immigrazione nei contesti nazionali: le banlieue francesi preoccupano solo i francesi, le periferie di Roma o Milano solo gli italiani, e così via per ogni stato europeo. Per chi si definisce nazional-rivoluzionario europeo o ha a cuore il futuro del continente, diventa essenziale comprendere l’importanza di affrontare la questione migratoria come una sfida europea, includendo anche le possibili soluzioni, come la remigrazione. Per esempio, per quanto riguarda l’espulsione di clandestini o di persone che commettono reati, la proposta dei conservatori inglesi di inviare i richiedenti asilo in Ruanda potrebbe risultare più efficace di quella italiana di trasferirli in Albania. Alcune frange del movimento identitario europeo hanno già colto l’esigenza di rendere la remigrazione una priorità comune. A Vienna, questo luglio, migliaia di europei si sono riuniti per richiedere la remigrazione sottolineando l’importanza di una visione europea unitaria sul tema. In tal senso, il potenziale mobilitante di questa proposta può diventare un mito fondativo per l’Europa di domani.
Un mito per mobilitare l’Europa
In Giorgio Locchi, il Mito – che può essere inteso come un sentimento condiviso, sfiorando quasi la definizione di Weltanschauung – crea, unifica e struttura la società, diventando l’origine stessa di una visione del mondo. Il Mito è una forza creatrice vivente, che costantemente si rinnova negli uomini che lo incarnano. Iniziare a concepire la difesa dai danni dell’immigrazione non come una questione di piccolo nazionalismo, ma come una causa europea (e quindi imperiale), significa abbracciare la difesa del nostro continente, che per secoli – dalle Termopili all’assedio di Malta, dai Campi Catalaunici a Lepanto – è stato il Mito fondativo della nostra civiltà. Questo è un passaggio essenziale per gettare le basi della nuova e autentica Europa. Le manifestazioni, da quelle più spontanee a quelle organizzate, come l’incontro a Vienna già citato, rappresentano simbolicamente la capacità mobilitante del tema della remigrazione. Nonostante il “difetto nazionale” precedentemente menzionato, in Germania non sono solo i gruppi minoritari a cogliere questa visione: anche l’Alternativa per la Germania (AfD), ormai uno dei principali partiti, ha compreso questo messaggio. Recentemente, il gruppo giovanile del partito, Junge Alternative, ha diffuso sui social un video, creato con intelligenza artificiale, che mostra dei piloti biondissimi che riportano clandestini nei loro paesi d’origine, accompagnati da musica techno. Al di là dell’abilità comunicativa, è significativo notare come la proposta della remigrazione non abbia ostacolato il consenso del partito, che anzi è cresciuto nei sondaggi e ha ottenuto successi nelle recenti elezioni in Turingia e Brandeburgo. Considerando questi sviluppi, la proposta dovrebbe essere presa in seria considerazione anche dai principali attori politici del nostro paese e non rimanere appannaggio di realtà più minoritarie.
L’incomprensione anti-islamica
Un altro errore che andrebbe corretto, tornando al tema principale di questo articolo, è l’ostilità rivolta non tanto verso l’immigrazione in generale, quanto verso la religione islamica in particolare. Questo approccio avvantaggia chi, ideologicamente, sostiene lo sradicamento e l’abbandono di ogni via che riconnetta l’uomo al Sacro. È lo stesso errore che ha portato alcuni di coloro che, nella nostra area, si rifanno al Cattolicesimo a sostenere il genocidio di Israele per ragioni anti-islamiche (si tratta certamente di pochi rispetto a chi, invece, ha una visione filo-palestinese, ma comunque troppi, vista l’importanza del contesto). Dovremmo forse smettere di considerare René Guénon uno dei maggiori interpreti del tempo moderno solo perché era islamico? Guénon stesso osserva come, in un’epoca di dissoluzione come la nostra, ogni religione tradizionale rappresenti un ramo di un albero le cui radici affondano nella Tradizione. Tuttavia, è importante chiarire: questa riflessione non significa che, per esempio, un immigrato islamico non debba essere soggetto a remigrazione, ma che, eventualmente, la remigrazione dovrebbe avvenire non perché è l’Islam in sé a rappresentare un problema, bensì, perché ognuno deve poter vivere nel luogo in cui è nato e da cui proviene la propria stirpe. Ciò non significa evidentemente che un europeo non possa avere a cuore le sorti e le lotte identitarie di popoli non europei, basti pensare che fu un camerata il primo europeo morire per difendere la causa palestinese, ma è soltanto nel legame che unisce gli uomini a sangue e terra che essi possono unirsi in nome di un comune obiettivo più grande di loro. E soltanto restando fedeli al particolare che si può agire per l’armonia dell’universale. E se c’è un universalismo che ci interessa difendere, è quello della differenza e della qualità, è quello dell’Europa che si allea con chi voglia combattere lo status quo, ma senza farsi deviare da finti alleati e finte alternative. Ed è anche partendo da tali presupposti che si va a risolvere la questione dell’immigrazione e dell’emigrazione.
Una visione imperiale, non imperialistica
Un’Europa imperiale, politica e militarizzata, memore del suo passato combatte per amore di ciò che vuol realizzare, diventa benefattrice di se e del mondo, dando vita ad una nuova etica che veda uniti l’aspetto politico e quello economico, quest’ultimo subordinato al primo evidentemente. È solo l’Europa imperiale che può rapportarsi al meglio con l’Africa, che è il suo naturale sbocco, come ben aveva intuito Sua Eccellenza, dandole la possibilità di emanciparsi dal dominio angloamericano, russo e cinese, e traendone vantaggi per la propria economia. E solo dopo aver conquistato un’egemonia imperiale, non imperialistica, che la remigrazione diventa una realtà fattuale, allo scopo di dare ai paesi da cui le masse emigrano la possibilità di non perdere uomini e risorse e di rendere l’Europa in grado di scegliere qual è il miglior interesse per la propria gente, di che tipo di immigrazione necessiti per ragioni lavorativi e come controllare al meglio i flussi, cosa che fa ogni comunità autenticamente sovrana. Ma perché tutto questo divenga realtà occorre abbandonare le vie dualistiche e semplificatrici, di cui il mondo moderno è oltremodo pieno. Occorre coltivare il massimo potenziale di cui si dispone e rendersi degni eredi della storia che ci ha preceduto, senza lasciarsi dominare da meri sentimenti di ostilità, ma riaffermando la reale natura di ciò che si è.
Alessandro Alario