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Ramelli, la vergogna della commemorazione vietata: da quel 29 aprile nulla è cambiato

by Fabio Pasini
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Milano, 29 apr – Sono giornate, queste, che provocano un senso di nausea, un malessere difficile da accettare. Pensi a un ragazzo di 19 anni barbaramente e vigliaccamente trucidato per le sue idee, condannato a morte dai figli viziati dell’antifascismo militante. Pensi a quel dannato 29 aprile del 1975, il giorno in cui Sergio Ramelli spirava dopo i 47 che avevano scandito la sua agonia, con la testa spaccata dalle pesanti chiavi inglesi utilizzate dagli sgherri di Avanguardia Operaia per aggredire quel giovane inerme sotto casa sua. E pensi ai divieti imposti a quanti vorrebbero commemorarlo degnamente, anche solo con una silenziosa fiaccolata. Una sordità umana, prima ancora che politica e istituzionale, che dà quella nausea, superiore persino alla rabbia.

Disprezzo cieco

Certi dinieghi arroganti ci dicono soprattutto una cosa: che 44 anni dopo, nella mente e nell’animo di certe persone, quelle trovano ragion d’essere solo nel divisivo 25 aprile, quasi nulla è cambiato. Per loro questa terra non solo ha figli e figliastri, padri e ascendenti da dimenticare, ma non riconosce dignità civile a una fetta importante del consesso socialeA confermare tutto ciò c’è un fattore, incontestabile, che si accompagna al modo inaccettabile con cui la stampa tratta, o non tratta, la storia di Ramelli e altre tragiche vicende. Questo fattore è la totale mancanza di analisi del clima e dell’humus culturale che in quegli anni, quando si diceva “uccidere un fascista non è reato”, produceva simili orrori. C’era e permane quel disprezzo cieco, la negazione che il tuo avversario, anche il tuo nemico peggiore, fosse e sia, al di là di tutto, un essere umano. Una simile mentalità permeava il mondo della sinistra, estrema e non, e anche di altri ambienti insospettabili, a Milano come a Roma e altrove. Nessuna pietà per i fratelli di Primavalle (loro sì figli del popolo), bruciati vivi da borghesissimi e ben protetti rampolli comunisti, nessuna pietà per Sergio, massacrato ai piedi del modesto palazzo in cui abitava con la sua semplicissima famiglia da un commando di futuri medici che giocavano in modo osceno e criminale alla “lotta di classe”.

Solo uno “sporco fascista”

Ma non è solo con il momento della violenza definitiva che i “proprietari della ragione” hanno evitato di fare i conti; li hanno lasciati in sospeso, anche e soprattutto, con la vita quotidiana dell’odio antifascista. Basta leggere e farsi raccontare da chi c’era in quale contesto maturò l’assassinio di Ramelli, che per il fatto di essere un militante del Fronte della Gioventù, organizzazione giovanile del Msi, era considerato semplicemente uno “sporco fascista”. Subì continue aggressioni, intimidazioni, minacce estese ai suoi familiari. Una terrificante sequela di violenze che lo costrinse a cambiare scuola, scelta che non gli salvò la vita, perché un suo ex compagno consegnò una sua fotografia agli universitari mazzieri di Avanguardia Operaia. Si pensi che persino una volta morto i suoi genitori, straziati com’erano dal dolore, furono oggetto di telefonate minatorie e altri messaggi raggelanti.

Il senso di nausea

Fu così per Sergio, fu così per tantissimi attivisti, aderenti, simpatizzanti di destra, di loro amici, parenti e semplici conoscenti. Tutti schedati, pedinati, fotografati: nomi, foto, indirizzi, orari, abitudini. Questo avveniva in quel periodo, qualcosa di tanto allucinante da apparire lontano, non solo nel tempo. Ebbene, con quel delirio, l’antifascismo attuale non ha mai fatto i conti, né pare intenzionato a farlo, come per quanto riguarda il lato più vergognoso della guerra partigiana. Segnaliamo una rara, ma interessante e significativa eccezione. Intervistato dal Giornale, l’ex sindaco di Milano Paolo Pillitteri, che all’epoca dell’omicidio Ramelli era assessore della giunta rossa di Aldo Aniasi, ricorda: “Ero molto infastidito da quel clima. Era come se si avvertisse un pericolo fascista incombente. Ma devo aggiungere una cosa: io che sono figlio di capo partigiano, carabiniere che liberò Sondrio proprio il 28 aprile, ero molto irritato da questo clima di sinistra gridata”. Pillitteri, che rammenta anche il vergognoso applauso scattato in Consiglio comunale alla notizia della morte del giovane missino, sorprende tutti affermando: “Devo dire che trovo molto discutibile il divieto alla fiaccolata per Ramelli, io credo che la colpa sia anche del fatto che non si sia mai riflettuto in maniera approfondita su quanto successo in quegli anni”. Ecco, punto centrato e chapeau. Peccato che dal sindaco Sala ai responsabili dell’ordine pubblico, dalla stampa pesante ai giullari di tutte le sinistre, le risposte e le mancate risposte siano sempre le stesse. Così a noi rimane quel senso di nausea che diventa ben altro quando, a proposito di Sergio Ramelli, leggiamo parole ignobili come quelle rigurgitate da Rifondazione comunista: “Ricordiamo che i morti sono stati vivi e che la loro fine, anche se tragica, non cancella scelte e militanza”. Anche se, a pensarci bene, al netto del loro animo marcio, hanno proprio ragione: la loro fine non cancella scelte e militanza, ma proprio per niente.

Fabio Pasini

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