Roma, 7 feb – L’Italia firmava il Trattato di Maastricht esattamente il 7 febbraio 1992. E così facendo avrebbe iniziato la corsa sfrenata verso la sua rovina. Una data difficilmente inquadrabile positivamente, a dispetto di una propaganda mediatica che continua a ribaltare la realtà di un fallimento economico, oltre che sociale, spirituale e politico: l’Unione europea.
Un’adeguata preparazione “pedagogica” di massa per preparare l’adesione e le conseguenze
Nella presunta e democratica Europa nessuno ha mai deciso nulla, tranne piccole, ristrettissime cerchie. Elezioni inutili, Parlamento consultivo, insomma, non lo scopriamo certamente oggi. Però, col senno del poi, era probabilmente necessario che i cittadini accettassero la “nuova Europa” che stava per giungere e che non protestassero, ma anzi guardassero con favore, qualsiasi sforzo per “essere degni” di farne parte. Ecco perché l’Italia che “quasi senza saperlo” ratificava Maastricht era stata già preparata a dovere, soprattutto nella propaganda demonizzatrice dell’economia pubblica che durava da decenni, in particolare dell’Iri, definito ovunque come un carrozzone insostenibile che doveva essere sostanzialmente dismesso per risparmiare risorse e ridurre quel debito pubblico che già agli inizi degli anni Novanta era lo spauracchio che ci avrebbe impedito di viaggiare verso la “salvezza” di Bruxelles. Ci credemmo tutti, a questa favola maligna. La verità che conosciamo oggi è molto diversa: il terribile debito pubblico esplode dopo il divorzio della Banca d’Italia dal Ministero del Tesoro nel 1981, cosìcché, da allora, le spese statali diventano realmente dipendenti da prestiti e da acquisti di titoli dall’estero. E l’Iri non era nessun carrozzone ingestibile: o meglio, sarebbe diventato tale dopo la perdita della possibilità di immettere denaro fresco nell’economia, successiva sempre a quell’anno, probabilmente il più nefasto insieme al 1992 di Maastricht. Ma la popolazione era già “cotta” a puntino. Sprechiamo troppo, viviamo al di sopra delle nostre possibilità, giusto darci una regolata, per andare in quell’Europa che sanerà i nostri guasti.
L’Italia consegnata a Maastricht ha demolito anche la sua potenza industriale
L’Italia che si è consegnata a Maastricht in quel febbraio 1992 ha distrutto gran parte della forza economica che l’aveva portata addirittura a diventare quinta potenza industriale al mondo negli anni Ottanta e addirittura quarta agli inizi degli anni Novanta (sebbene quest’ultima scalata non abbia avuto riscontri statistici rilevanti e soprattutto sia durata troppo poco per poter essere in qualche maniera “calendarizzata”, diciamo così). Per andare dietro ai famigerati “bilanci da tenere a posto”, il Paese ha progressivamente distrutto uno dei poli industriali più importanti per la sua stessa potenza, ovvero l’Iri. Seguendo la leggenda del “poco Stato, poche spese”, la liquidazione dell’Istituto di Ricostruzione Industriale è costata carissimo al Paese, che diminuendo la quota di lavoratori a stipendio certo ha reso insicuro anche il mercato privato, per non parlare dei guasti della globalizzazione e delle localizzazioni, ben inserite nella stessa mentalità – prima ancora che nei parametri – che Maastricht ha imposto. Ora, a decenni di distanza, non possiamo fare quasi nulla e siamo padroni del nostro destino forse per questioni sul genere “realizzare una pista ciclabile in un comune”: ed è in dubbio pure quella, perché il Comune deve tenere d’occhio i bilanci e i bilanci locali dipendono anche da quelli nazionali. Quelli che “devono stare attenti ai conti” per un debito che si ripagherà mai. Dovevamo “morire per Maastricht” e così stiamo facendo.
Stelio Fergola