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Quando parli di “Stile Ghibli” parli di un sogno: l’Ai non fa il pioniere, ma il pioniere fa ciò che vuole

by Sergio Filacchioni
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Ghibli

Roma, 31 mar – C’è un vento che soffia caldo dal deserto, un vento che non porta con sé polvere, ma sogni. Lo chiamano Ghibli, e quando soffia, nulla rimane com’era prima. È il vento che ha dato il nome a un aereo italiano negli anni ’30, una macchina nata per esplorare l’ignoto, per spingersi oltre. Ed è lo stesso vento che, decenni dopo, avrebbe dato il nome a qualcosa di ancora più straordinario: uno studio di animazione destinato a cambiare per sempre la storia del cinema.

Ghibli: il vecchio sogno di volare

Quando Hayao Miyazaki e Isao Takahata fondarono lo Studio Ghibli nel 1985, non volevano semplicemente fare film. Volevano rompere le convenzioni, sfidare l’inerzia dell’industria, riportare il senso del meraviglioso nell’animazione. I loro film non erano prodotti di consumo, ma finestre su mondi vivi, pulsanti, imperfetti come la realtà eppure trasfigurati da uno sguardo poetico. Non era solo un’estetica. Era un’avventura. Il nome fu scelto da Hayao Miyazaki per pura coincidenza ma, in seguito, ha definito lo studio in modo decisivo. Nomen omen. In un documentario dello Studio Ghibli intitolato The Kingdom of Dreams and Madness, l’iconico regista ha ammesso che Ghibli altro non era che il soprannome dell’aereo da ricognizione sahariano italiano, il Caproni Ca. 309. Il regista ha celebrato la sua fonte d’ispirazione nel film Si Alza il Vento (2013), in cui Gianni Caproni compare al fianco dell’ingegnere Jirō Horikoshi come abitante dei suoi sogni. Il sogno del volo è antico quanto il mondo e altrettanto italiano: dai progetti di Leonardo Da Vinci alle trasvolate di Italo Balbo, passando per il celebre Raid “Roma-Tokyo” del 1920, il sogno è diventato sempre di più realtà. Stile Ghibli quindi è sinonimo di stile italiano.

Il mito e la macchina

Oggi viviamo in un’epoca in cui la tecnologia promette di creare al posto nostro. Gli algoritmi disegnano, scrivono, scompongono e ricostruiscono immagini con la velocità della luce. Con l’ultimo upgrade di Anime GPT, il mondo si è riempito di immagini “in stile Ghibli“, elaborate da una macchina che ha analizzato migliaia di fotogrammi e ha imparato a riprodurne i colori, i tratti, la luce sospesa tra sogno e realtà. Un tormentone social che a parere di chi scrive non toglie e non ruba nulla a Miyazaki e il suo lavoro. Nessuna “offesa” ma al massimo tanta, troppa pubblicità non richiesta. Se l’Ai sarà l'”ottava arte” è presto per dirlo, ma una riflessione possiamo farla, senza preconcetti: se lo “stile Ghibli” fosse solo colori e luci, sarebbe un guscio vuoto, una maschera. Perché il vero cuore dello Studio Ghibli non è nelle sue immagini, ma nella sua anima. Un’anima fatta di scelte creative che nessuna AI potrà mai simulare: la lentezza di un momento contemplativo, l’inquadratura che indugia su una tazza di tè, la mano che si stringe su un lembo di stoffa con tutta la fragilità dell’essere umano. Ha ragione il regista premio Oscar quando dice che “chi crea roba del genere non ha idea di cosa sia il dolore“. Chi ha bandito dalle proprie vite il dolore, ovvero il “vivere pericolosamente” nicciano, non potrà mai creare nulla ma solo replicare, imitare, annoiarsi. L’AI può perfezionare un tratto, ma non conosce l’incertezza del gesto creativo, il dubbio, l’intuizione che cambia rotta all’ultimo momento. Questo è ciò che distingue l’uomo dalla macchina e rende il vento Ghibli qualcosa d’afferrabile solo con un paio di ali: “I miei film sono pieni di volo perché è la più grande metafora della libertà“.

L’orizzonte è ancora aperto

Il problema, dunque, non è l’AI in sé. Uno strumento non ha colpe, né intenzioni. Il problema è l’uso che se ne fa: una matita è a portata di tutti, usarla per realizzare un paesaggio su un foglio bianco invece no. Se ci limitiamo a replicare immagini di mondi che esistono già, a ricopiare vecchi capolavori o peggio ci accontentiamo del semplice trash vestito in atmosfera anime, allora ci stiamo arrendendo. Stiamo spegnendo il vento. Lo “stile Ghibli” non è un filtro, è più una filosofia. È la scelta di non fermarsi alla superficie, di non temere la fatica della creazione e di non aver paura dell’avventura. Oggi più che mai, servono giovani che non si accontentino di premere un pulsante e aspettare che un algoritmo completi l’opera. Servono visionari, sognatori, esploratori: soprattutto serve gente in grado di pensare e di accorciare sempre di più la distanza tra pensiero e azione. Servono persone disposte a salire su un aereo immaginario, a sentire il vento sulla pelle, a guardare l’orizzonte e a domandarsi: cosa c’è oltre? Perché lo stile Ghibli è questo: non imitare il passato, ma avere il coraggio di volare. Così come la macchina fotografica non ha mai spodestato gli artisti, ma si è fatta arte anch’essa approdando al cinema, anche l’Ai merita una generazione di visionari che la possano innalzare verso orizzonti sconosciuti, liberandoci dal copia e incolla globale.

Sergio Filacchioni

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