Roma, 11 feb – Nei primi anni Trenta in Italia un autore seppe fare costante riferimento alla teoria dello sviluppo di Schumpeter e agli scritti di Keynes, arrivando a sviluppare linee di ricerca in sintonia con l’economista inglese e talvolta addirittura anticipatrici di alcuni aspetti delle sue opere più celebri. Ci riferiamo a Guglielmo Masci, economista e professore napoletano, la cui opera feconda è stata colpevolmente dimenticata nel dopoguerra, a causa della damnatio memoriae che ha colpito la storia italiana tra le due guerre. Persino Federico Caffè si lamentò di questo inconcepibile oblio. Masci, insieme a molti altri pensatori italiani dell’epoca, fu protagonista di uno dei più intensi momenti di ripensamento della società, dell’economia e dello Stato a livello mondiale. C’è di più: il pensiero economico corporativo promosso dal fascismo, pur con tutti i limiti dettati dalla “giovane età”, permise all’Italia di rimanere in sintonia con le migliori riflessioni scientifiche maturate all’estero e di concepire soluzioni alla crisi di gran lunga più valide rispetto a quelle proposte dai professori e dai vessilliferi del vangelo liberista, Einaudi per primo. «Io credo che, con tutti i loro equivoci, le critiche di Ugo Spirito e compagni all’economia liberale, contenessero molti grani di verità e fossero comunque culturalmente meno anacronistici delle pur abili e dotte difese dei custodi del tempio. E credo anche che quelle controversie e coloro che ne furono protagonisti non siano da considerare come un momento di smarrimento della ragione economica, o come il prezzo pagato ad una dittatura politica invadente il terreno della cultura», ha scritto significativamente Giacomo Beccantini negli anni Ottanta.
In effetti, il regime consentì il libero fluire dei dibattiti sul terreno economico, con un occhio di riguardo verso chi tentava di aggiornare e superare i postulati dell’economia classica. «Critica Fascista» ospitò diversi scontri dialettici tra corporativisti e liberali, le cui difficoltà divennero col passare degli anni sempre più evidenti. A questo proposito si può citare l’opera di Celestino Arena che «riprende temi già sviluppati, in quegli anni, dal pensiero anglosassone immediatamente pre-keynesiano; queste analisi testimoniano una inaspettata sintonia con le linee di sviluppo dell’analisi economica all’estero, non rintracciabili invece nella scuola accademica liberale: così che, proprio attraverso le tematiche emergenti nell’area del pensiero corporativo, è possibile cogliere i limiti dell’immobilismo concettuale del liberismo italiano», usando le parole di Francesco Perillo. Masci affrontò i temi dell’intervento dello Stato e della politica economica come complesso di interventi volto a creare un potere di equilibrio rispetto al mercato, attraverso politiche anticicliche, di sviluppo e di piano, ponendo l’Italia sulla scorta del celebre economista inglese. Sul piano concreto, forti programmi di spesa pubblica “keynesiana” furono proprio uno degli ingredienti alla base dello sviluppo economico e sociale nel Ventennio, come riportato, tra gli altri, da autori come Augusto Grandi (Eroi e cialtroni) e Fernando Ritter (Fascismo Antifascismo).
Sul piano culturale, si poteva intravedere un tentativo da parte di ambienti politici e accademici di avvalersi della elaborazione di Keynes nella polemica antilberista, e la «Nuova Collana degli economisti stranieri e italiani», diretta da Giuseppe Bottai e Arena, riportò due importanti scritti dell’autore inglese: Autarchia economica e la Fine del lasciar fare. Alberto De Stefani riprese gli indirizzi keynesiani sui temi della politica monetaria e della lotta alla disoccupazione in una serie di celebri articoli pubblicati su La Stampa nel 1939, mentre recensioni parzialmente favorevoli alla «Teoria Generale» apparivano sulla Rivista internazionale di Scienze sociali a firma Francesco Vito e sul Giornale degli economisti da parte di Carlo Pagni. Il consenso non poteva essere pieno in quanto l’inglese puntava a un rinnovamento del pensiero classico rimanendo all’interno del “discorso liberale”, mentre i fascisti sognavano una vera e propria rivoluzione sociale nel nome dell’ideale corporativo. L’economia atomistico – concorrenziale andava superata in favore dell’identità tra Stato e individuo, come emerge dalle riflessioni economiche di Ugo Spirito e dall’idea gentiliana di Stato Etico. Non a caso Economia, rivista di Gino Arias, lodava il Keynes perché aveva rotto con la tradizione classica, ma gli rimproverava il metodo razionalistico che si contrapponeva al «volontarismo dell’economia totalitaria».
La chiusura di diverse riviste, l’allontanamento di alcuni economisti a causa delle leggi razziali e lo scoppio della guerra furono fattori che contribuirono a frenare il dibattito internazionale e il fascino del corporativismo. Nel dopoguerra, le teorie keynesiane divennero invece la base per il rilancio europeo e i Trente Glorieuses. In ogni caso, il valore dell’esperienza italiana andrebbe senza dubbio rivalutato, soprattutto alla luce della perdurante crisi dei nostri giorni: «Dal punto di vista scientifico, il significato dell’economia corporativa è quello di una critica radicale alla dottrina economica tradizionale e allo stesso tempo del socialismo scientifico. (Con essa) Fu reimpostato il problema della natura dell’atto economico, considerata la funzione economica dello Stato, posto a fuoco il concetto di interesse generale, riesaminato il problema della funzione equilibratrice dei prezzi, riveduta la teoria del commercio internazionale», annotò Alberto Bertolino, tra i pochi a trattare la materia con occhio scientifico negli anni Cinquanta. Inoltre, «molta di questa letteratura si configura come un embrione per mutare i presupposti della scienza economica nel senso di un abbandono dell’approccio microeconomico per un approccio macroeconomico», ha osservato Massimo Finoia.
«Embrioni» presenti già dalla fine degli anni Venti nelle riflessioni di alcuni corporativisti ben più intransigenti e ambiziosi di Masci, con tutte le difficoltà del caso. Ci riferiamo in particolare ad Arias, Filippo Carli e Massimo Fovel. Quest’ultimo sollecitò metodi di indagine nuovi per giungere alla nozione di «unità collettiva» superando la concezione classica che vede nel singolo individuo il punto di partenza della teoria economica. Per alcuni il «giudizio corporativo», che guardava alla Nazione, avrebbe dovuto sostituire il «giudizio edonistico» mentre all’homo oeconomicus sarebbe dovuto subentrare l’homo corporativus. Sebbene talvolta caratterizzata da ingenuità, la folta gamma delle teorie e proposte economiche maturate in quegli anni testimonia un’altissima tensione ideale unita all’orgoglio di concepire idee e progetti di chiara marca italiana. Una volontà di cui oggi, nell’Italia stretta tra globalizzazione, deindustrializzazione e gabbie europee, ci sarebbe ancora disperato bisogno.
Agostino Nasti