Roma, 27 mag – Miliardo più, miliardo meno. Ad ogni finanziaria, da quando si è concluso il periodo di Tremonti – che sostanzialmente bloccò le privatizzazioni dopo anni di bagordi – al ministero dell’Economia, sono sempre nuove le stime su quanto il governo andrà o meno ad incassare dalla (s)vendita delle partecipate pubbliche. Non senza qualche figuraccia, come quella rimediata dalla quotazione di Fincantieri
L’obiettivo è sempre quello: ridurre il debito pubblico. Di quanto? Le ultime proiezioni parlano di circa 20 miliardi da reperire attraverso la liquidazione di parte del patrimonio industriale pubblico, pari allo 0,3% del totale dell’indebitamento della pubblica amministrazione. Roba da zerovirgola che permetterà di risparmiare qualche decina di milioni di euro in termini di interessi passivi, a fronte però della rinuncia ad un patrimonio industriale di assoluto rilievo.
Parliamo di patrimonio perché, dati alla mano, sono solo quelle pubbliche le aziende in grado, oggi, di crescere in Italia. Ai primi posti per capitalizzazione di borsa, prime per dipendenti, prime per investimenti. E, nei fatti, come spiega Luca Piana in un’inchiesta per il settimanale L’Espresso, praticamente le uniche ad essere rimaste ancora in mani italiane. Confrontando i numeri del 1991 con quelli di oggi delle prime dieci spa per ricavi, spiega Piana, “un quarto di secolo fa erano controllate da soci privati italiani sette società su dieci, mentre oggi è rimasta soltanto la holding Edizione della famiglia Benetton. Dopo la migrazione in Olanda del controllo di Fiat-Chrysler e in Francia di Luxottica e Telecom Italia, le altre grandi aziende industriali rimaste di proprietà italiana sono solo quelle statali“, si legge. Si tratta di Enel, Eni, Leonardo e Saipem. “Solo” quattro, ma Enel ed Eni da sole valgono il 56% del fatturato complessivo, percentuale che sale al 65 se si considerano anche le altre due.
“Tra i grandi gruppi industriali italiani – prosegue Piana – quelli a controllo pubblico sono stati tra i pochi a non issare bandiera bianca ma, al contrario, a continuare a crescere. E l’hanno fatto in un contesto difficile, nel quale gran parte delle aziende private è stata invece ceduta, ha trasferito la sede all’estero o si è rimpicciolita, talvolta al punto di scomparire”. Le partecipate pubbliche, insomma, si sviluppano continuamente nonostante la crisi. E lo fanno pur operando in contesti di mercato, dato che i monopoli di settore sono aboliti da tempo, così come le dotazioni di fondi, vietate d’imperio dalle ferree normative Ue sugli aiuti di Stato.
Filippo Burla