Roma, 5 nov – La cosa bella del politicamente corretto è che fra tutte le forme storicamente determinate di tabù totemico, è la più esplicitamente, per quanto involontariamente, comica. Recentemente, la responsabile della raccolta dati del Democratic National Committee (in pratica, la segreteria del partito democratico americano), Madeleine Leader, ha inviato un’e-mail interna all’organizzazione riguardo le posizioni lavorative aperte, ma con il chiarimento rivolto al lettore che “personalmente preferirei che tu non inoltrassi [questa e-mail] ai maschi bianchi, cisgender ed eterosessuali, dato che sono già la maggioranza”. Per chi si fosse perso una puntata del delirio genderista, “cisgender” indica semplicemente quelle persone che si identificano con il proprio genere biologico. In altre parole, quei maschi che si ritengono tali avendo un pene, e quelle femmine che si ritengono tali avendo una vagina, il contrario essendo un transgender, ovvero un individuo dotato di pene che vorrebbe una vagina o viceversa.
Ora, per quanto la questione agli occhi delle persone normodotate possa apparire demenziale, salta subito agli occhi quello che questa rivista ha sempre e comunque sostenuto essere il vero obiettivo polemico dell’ideologia del politicamente corretto, ovvero il maschio bianco eterosessuale. Qualunque altra combinazione possibile ed immaginabile può a qualunque titolo vantare una propria vittimistica superiorità morale in quanto “discriminata”.
Sarebbe un errore credere che questa ideologia sia sorta per caso, senza analizzarne al genesi storica, che va individuata nella Scuola di Francoforte, in particolare nel pensiero di Herbert Marcuse, alla base della sinistra filo-capitalista contemporanea.
In particolare nella sua opera fondamentale “L’uomo ad una dimensione” possiamo trovare una sorta di dottrina della marginalità sociale intesa come rivoluzione. Tanto il capitalismo liberale quanto il socialismo reale sono per Marcuse (ed in generale per la scuola di Francoforte) forme di oppressione della libera personalità individuale, considerata sessualmente repressa a fini produttivistici. È importante afferrare questo concetto: nonostante la base di partenza sia indubbiamente marxista (capitalismo come alienazione), il pensiero francofortese si distacca nettamente dalla tradizione dialettica di stampo marxista-leninista in quanto il concetto di rivoluzione non viene più identificato come ribaltamento dei rapporti sociali di produzione.
In altri termini: la dottrina di Marx identifica giustamente il capitale non come una somma di danaro, né come un semplice fattore di produzione, ma come un rapporto sociale di produzione, quindi la cesura fondamentale nella società è fra chi possiede i suddetti mezzi e chi deve vendere il proprio lavoro per campare. La rivoluzione viene quindi identificata nella conquista dei mezzi di produzione da parte della classe operaia, dall’ingegnere all’ultimo manovale. La critica dei francofortesi (Marcuse in particolare) al comunismo sovietico è quella di essere anche esso una sorta di programmazione capitalistica della vita individuale, la cui “libera espressione” è subordinata alle esigenze economicistiche della collettività.
Non dovrebbero sfuggire inquietanti analogie con una certa cultura di massa tutta incentrata sulla “personalità”, sull’“essere se stessi”, sui “sentimenti”. Il ragionamento in effetti, è una condanna netta di qualunque forma di legame sovra-individuale accusato di essere, intrinsecamente…fascista. C’è della razionalità nel delirio, dato che quello che la rivoluzione a questo punto non è più percepita in senso marxista-classista-dialettico bensì come pura e semplice emancipazione individuale.
Questa concezione della rivoluzione come emancipazione è molto simile al concetto liberale di libertà negativa intesa come dissoluzione di ogni vincolo interpersonale, che abbiamo in passato sviscerato. Marcuse va però oltre: bisogna che la nuova sinistra, ovvero la sinistra liberal (in senso anglosassone) ed antisovietica (in senso anti-stalinista) diventi forza attiva nella programmazione scientifica della distruzione dell’Occidente patriarcale. Chi può modificare il sistema capitalistico? Non la classe operaia, perché si è lasciata integrare, ma i gruppi marginali, che vengono posti al di fuori del sistema (omosessuali, pazzi, debosciati, immigrati, criminali, ecc…). Questi gruppi possono incarnare il “grande rifiuto” (termine desunto dal manifesto surrealista del 1924 di Breton), cioè l’opposizione totale al sistema e l’inserimento dell’utopia nella realtà.
Interessante poi la critica che viene posta al capitalismo allora imperante nell’Europa occidentale, non più liberale in senso classico, bensì keynesiano-dirigista-nazionale: esso ha garantito alti salari, quindi una classe media in continua espansione che ha rinunciato alla rivoluzione proletaria accettando il sistema patriarcale proto-fascista. Se vi stupite di fronte al sovrano disprezzo che i politici di sinistra nutrono verso gli operai bianchi (gli sdentati, come li chiamava Hollande) è perché non avete colto la radice ideologica di fondo. Essi sono “reazionari”, perché vogliono “semplicemente” essere pagati il dovuto rispetto al loro lavoro, non vogliono realmente distruggere la civiltà di cui fanno parte nel nome dell’emancipazione individuale.
L’ideologia del politicamente corretto non è altro che la versione neoliberale delle tesi sovversive dei francofortesi, in cui il maschio bianco eterosessuale è preso a bersaglio privilegiato dalla sinistra al caviale che ha fatto dell’omologazione planetaria la propria bandiera. La differenza fra essa ed il liberalismo classico è infima, ed oramai sostanzialmente inesistente.
Matteo Rovatti
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