Roma, 16 set – Pinocchio viene stuprato dalla Disney, come tra l’altro potevamo già avere il sentore dopo la notizia choc della fata turchina di colore, la cui foto circolava già l’anno scorso.
Pinocchio, l’Italia e lo scempio della Disney
Cominciamo col dire che Pinocchio è una storia incredibilmente sottovalutata. Non soltanto dall’ovvio punto di vista pedagogico, ma anche da un altro più squisitamente etico-spirituale, per non parlare nemmeno della rappresentatività che essa trasmette per l’identità italiana, troppo spesso altrettanto sottovalutata quando non ignorata, in favore di non meglio precisate peculiarità locali le quali, pur non avendo in sé nulla di sbagliato, hanno finito per alimentare il tritacarne del pensiero dominante e la sua distruzione della Patria sotto ogni profilo, ivi incluso quello dell’immaginario collettivo.
Non c’è niente di più italiano della fiaba di Carlo Collodi. Nell’ambientazione, negli usi quotidiani narrati, nella socialità tra i protagonisti, perfino nei luoghi comuni, per quanto fastidiosi essi possano essere. Attenzione: non stiamo sostenendo che Pinocchio possa o debba piacere a tutti. Stiamo sostenendo che è impossibile – a meno di non negarlo per partito preso – ignorare gli elementi fortissimi di cultura nazionale che esso trasmette, dall’inizio alla fine. D’altronde, la storia venne concepita nel clima successivo alla legge Coppino (1877), e rappresenta le esigenze e le speranze di una Nazione che, unitasi da poco, cerca con insistenza di eliminare il problema dell’analfabetismo, recuperando su Paesi più evoluti economicamente e di conseguenza più avanzati (come Francia e Gran Bretagna, che avrebbero, però, comunque raggiunto l’omogeneità linguistica solo agli inizi del XX secolo).
Ecco perché, di Pinocchio, lo scempio dell’ultima versione Disney fa ancora più male. Perché va a toccare non una semplice fiaba, ma LA fiaba. Curiosamente, quella italiana con maggiore successo su scala mondiale, il che obiettivamente la rende più fragile sotto questo profilo. Ma vedere la piccola cittadina italiana abitata da personaggi di colore, in pieno XIX secolo, fa malissimo. Non stiamo a spiegare ai sedicenti antirazzisti che non abbiamo niente contro le persone di colore, tanto sono nati per non capire, e per non nutrire alcuna affezione per i propri caratteri visivi. Degli insensibili cronici con i quali non vale la pena di perdere tempo. Per non parlare, nel resto del film, di uno spirito artefatto che poco restituisce degli ambienti sgarrupati e poveri dell’Italia del tempo. Si salva solo una cosa: il paesino che, esteticamente, mostra una palese affinità con i borghi del nostro Paese. Va sottolineato, per onestà intellettuale, che nessuno che abbia trasposto Pinocchio al cinema sia mai riuscito a rappresentarlo in modo davvero rilevante, ad eccezione di Luigi Comencini, con il suo film a puntate che resta, tutt’oggi, la migliore rappresentazione sul “grande schermo” della storia di Collodi.
Il film del 1940
Anche nell’originale Disney del 1940, in realtà, vi era una reinterpretazione dell’originale piuttosto marcata. Il contesto, però, è diverso. A Walt Disney piaceva molto “reinventare” le storie a cui si ispirava. Lo aveva già fatto con “Biancaneve e i sette nani” (1937), il primo lungometraggio animato della storia. Lo avrebbe fatto in uno dei suoi massimi capolavori, “Fantasia” (anch’esso del 1940), quel rivoluzionario “concerto filmato” in cui si reinterpretarono gli immaginari di sinfonie come “La sagra della primavera” di Igor Stravinsky o la “Pastorale” di Ludwig Van Beethoven. Nel primo caso, l’autore russo voleva rappresentare delle danze tribali, nel secondo, quello tedesco la natura. Disney immaginò rispettivamente la formazione del pianeta terra e una rappresentazione del mondo Olimpo, residenza degli Dei antichi.
Pinocchio venne rivisitato in modo tutto sommato marginale. L’ambientazione era molto meno italiana del remake appena uscito, identificabile sì con il suolo nazionale, ma più simile ai tipici paesaggi del Trentino, con qualche “tentazione” altoatesina e addirittura tirolese. Il personaggio di Mangiafuoco venne stravolto (diventando direttamente un antagonista, a differenza della fiaba originale). Ma in generale lo spirito pedagogico dell’opera, sebbene distaccato dalla sua essenza italiana, venne mantenuto, soprattutto nello struggente finale.
Stelio Fergola