A 54 anni dalla strage di Piazza Fontana si deve affermare che da tempo è emersa una certezza: “Era già tutto chiaro su quella strage fin da subito e la verità è stata nascosta per decenni a causa dell’utilizzo politico che se n’è fatto”. Per Ustica si è riproposta per decenni la versione della bomba terroristica a bordo, mentre a tutti gli indagatori fu subito chiaro come l’aereo dell’Itavia fosse stato colpito da un missile. L’avevano visto da tutti i radar militari. Nel caso di Piazza Fontana furono invece elaborate le accuse prima per distruggere gli anarchici e poi per distruggere i neofascisti, ma fu subito chiaro agli indagatori che l’attentato coi morti fu dovuto a una tragica fatalità, poiché l’intento reale era di un profilo estremamente più basso. Distorcere quegli avvenimenti doveva servire per commettere le stragi successive
L’indagine su piazza Fontana va rifatta
L’intento di questo scritto è quello di ripensare tutta l’indagine di Piazza Fontana col presupposto dei reali moventi politici degli attentatori, molto più blandi rispetto all’effetto indesiderato di 17 morti e 88 feriti. Poi, alla fine, verrà descritto nei particolari perché non fu detto subito che il posizionamento dell’ordigno alla Banca Nazionale dell’Agricoltura (Bna) fu un tragico errore nei tempi. Oggi vogliamo togliere tutta la politica da torno ed esaminare le numerose circostanze con il distacco di un italiano di oggi.
La mancata dolce vita dei neofascisti
Un asse portante nei decenni di indagine e di contigua propaganda dei media è stata l’immagine costruita dei neofascisti collusi con gli apparati dello Stato e quindi sostenuti politicamente e finanziariamente per questo motivo. Oggi sappiamo che tutto questo era falso perché chiunque ha potuto osservare le vite trascorse dai vari Franco Freda, Clemente Graziani e Stefano delle Chiaie, sia durante il loro esilio forzato, sia in carcere e sia nel resto della loro vita successiva. Chiunque ha potuto osservare che si è sempre trattato di vite sacrificate e con scarse disponibilità di soldi. Tutto il contrario rispetto ai generali e ai prefetti, e alle loro vite nel lusso. Persino di un presidente della Repubblica si vociferò il sospetto che prelevasse Lit. 10.000.000 al mese dai fondi segreti del Sisde. Quella sì era una bella vita. Per i neofascisti, tantissima dignità ma niente ostriche e champagne, né prima né dopo. Quindi niente collegamenti coi servizi segreti e niente stipendi da agente segreto. La vita dei neofascisti è stata la vita tipica dei rivoluzionari: tanti rischi, tante calunnie e tante privazioni.
I cinque attentati del 12 dicembre 1969
La bomba di piazza Fontana fu solo uno dei cinque attentati organizzati in contemporanea per quel giorno, due a Milano e tre a Roma. A Milano alla Bna e alla Banca Commerciale (Comit) di piazza della Scala. A Roma all’altare della Patria, all’adiacente Museo del Risorgimento e alla Banca Nazionale del Lavoro. Tutte le bombe scoppiarono ad esclusione di quella della Comit di Milano, perché, si disse che fosse stata rinvenuta prima del suo scoppio e pure prima dello scoppio di quella in Piazza Fontana. La sera stessa, si dice, che la bomba inesplosa fu fatta brillare senza che fosse stata debitamente analizzata. Indicheremo quest’ultimo evento nella sezione dedicata alle stranezze, stranezze che però non sembrano inficiare una logica generale.
I tipici attentati anarchici
Per chi si intende di politica, come si vede, gli attentati del 12 Dicembre 1969 sono i tipici obiettivi degli anarchici: le banche simbolo del potere capitalista e l’altare della Patria simbolo del militarismo. Quindi, o erano gli anarchici o si volle far credere che erano loro. La circostanza di cinque attentati in contemporanea, suddivisi tra Roma e Milano, voleva anche dimostrare una notevole potenza di fuoco. Si ricordi che, nell’Aprile dello stesso 1969, erano state piazzate 10 bombe sui treni in contemporanea, sempre con intenti dimostrativi, potenza di fuoco compresa, anche se quello dei treni non era il tipico obiettivo degli anarchici ma invece indicava i neofascisti. Ovvero, i neofascisti operavano con degli obiettivi in proprio, diversi da quelli degli anarchici. E sempre a livello dimostrativo.
I contatti tra gli anarchici e i neofascisti
Si deve fare un preambolo e riferirsi agli incidenti di Valle Giulia del Marzo 1968. Benché qualche esponente di sinistra ancora oggi neghi una prossimità tra neofascisti e ultrasinistra durante quegli incidenti, c’è un’ampia documentazione fotografica che dimostra la massiccia presenza dei neofascisti durante quegli incidenti. Anzi, ancora oggi, i neofascisti superstiti affermano di aver guidato quegli incidenti per via di una loro maggiore dimestichezza negli scontri con la polizia. Detto ciò, come quadro generale dell’epoca, si può immaginare per quel periodo una sovrapposizione operativa tra anarchici e neofascisti? Per gli attentati del 12 Dicembre 1969 si possono individuare due contatti, uno a Roma e uno a Milano. Quello di Roma era tra Mario Merlino, frequentatore dello stesso circolo di Pietro Valpreda, e l’amico Stefano delle Chiaie. Quello di Milano era tra Antonio (Nino) Sottosanti e l’amico Giuseppe Pinelli. Inoltre, Sottosanti a Milano aveva una stretta amicizia con Lucio Pulsinelli, altro anarchico milanese ben conosciuto pure da Pinelli. Ci furono unità di intenti operative su attentati dimostrativi tra neofascisti e anarchici? Difficile dirlo, anche se alcuni legami si potrebbero definire solidi. Ci furono anarchici mai arrestati o perseguitati grazie all’azione di neofascisti, infiltrati o meno? Mai (definiamo come neofascisti quelli rivoluzionari). L’unico anarchico arrestato per Piazza Fontana fu Valpreda e fu arrestato grazie alla denuncia di un comunista di provata fede, il tassista Rolandi. Vedremo dopo, dall’evolversi dei fatti, se Sottosanti e Merlino erano davvero degli infiltrati dei neofascisti tra gli anarchici o se erano solo degli amici.
Esplosivi, detonatori e la favola degli infiltrati
Procurarsi gli esplosivi e, soprattutto, i detonatori innescabili da un timer era oggettivamente abbastanza complesso. Considerato ciò, la vulgata giudiziaria fu per anni la stessa: 1) I neofascisti infiltravano i circoli anarchici. 2) Gli anarchici ebbero bisogno dei detonatori sofisticati per gli attentati. 3) I neofascisti si procurarono detonatori ed esplosivi dagli amici nei servizi segreti. 4) I neofascisti passarono tramite gli infiltrati i detonatori sofisticati agli anarchici. Lo schema risulta abbastanza inconsistente per due motivi: A) Come visto nei decenni successivi, i neofascisti avevano un totale distacco dai servizi segreti dimostrato dal loro tenore di vita basso e difficoltoso (ciò non significa che i servizi segreti non tentassero di infiltrarsi tra i neofascisti). B) Se i neofascisti fossero stati degli infiltrati, lo scopo sarebbe stato quello di creare una trappola per buttare gli anarchici in pasto alla polizia. Ma non ci fu nessuna trappola o anche semplice indicazione da parte dei neofascisti alla polizia in tal senso. Quindi la teoria dell’infiltrazione e del passaggio dei detonatori era strampalata. A meno di pensare una contiguità operativa tra anarchici e neofascisti, però mai sfociata in niente. Per dirla tutta, in aggiunta, le organizzazioni rivoluzionarie, se dovessero regolare dei conti, non lo farebbero mai con l’aiuto della polizia dello Stato che vorrebbero abbattere, ma li regolerebbero direttamente. Quindi la teoria delle infiltrazioni pro attentati-con-arresti apparirebbe ancora più strana a chi non ha inclinazioni da polizia di regime. Oltre tutto, rimane viva la sensazione che la polizia avesse realmente dei suoi infiltrati nei circoli anarchici (e nelle organizzazioni neofasciste) e quindi probabilmente già sapeva tutto questo. Nella parte stranezze dell’indagine segnaleremo poi la mancata indagine sulla provenienza dei detonatori. Da ultimo, non si può ignorare sull’argomento esplosivi e detonatori la recente confessione di un importante esponente della sinistra rivoluzionaria, l’ing. Vittorio Battistoni da Chiavari. Battistoni, a 84 anni, si è deciso a far luce sulla morte di Giangiacomo Feltrinelli, ucciso dall’esplosione di una bomba che stava piazzando per far saltare un traliccio a Segrate, vicino Milano. Ci sono state le solite mistificazioni dei media sull’argomento, per mettere in dubbio che Feltrinelli si fosse ucciso da solo per l’imperizia nel maneggiare detonatori ed esplosivi immaginandosi congiure, ma oggi Battistoni ha chiarito tutto, attribuendosi anche la colpa morale di quella morte: “Se avessi accompagnato Feltrinelli al traliccio non sarebbe esploso durante l’attentato”. Di più, Battistoni ha chiarito di aver rubato personalmente, evidentemente con dei complici, due quintali di dinamite da un cantiere stradale in Liguria, “dopo tre notti di appostamenti”. Con relativi detonatori. Il tutto amichevolmente suddiviso tra vari gruppi rivoluzionari. Poi dice di averne fornito kg 20 a Feltrinelli insieme ai detonatori e insieme, da bravo ingegnere, a un disegno tecnico dove spiegava come far funzionare i detonatori. Poi Feltrinelli combinò un pasticcio che lo portò alla morte. Ovviamente Battistoni dovrebbe essere oggi già coperto dalla prescrizione per i reati confessati. Insomma, questo per dire che, se la sinistra rivoluzionaria avesse voluto procurarsi esplosivi e detonatori, aveva dove andare senza dover aspettare i neofascisti.
A Giuseppe Pinelli va riconsegnato il suo nome
Come è noto, Pinelli è volato giù da mt 20 mentre era sotto interrogatorio da parte del commissario Luigi Calabresi nella questura di Milano. Diciamo subito che Pinelli ha un alibi di ferro e che non è un alibi costruito apposta per avere un alibi. Perché è un alibi ad incastri successivi e bastava che un incastro vacillasse per metterlo nei guai. Ma non successe. Il 12 Dicembre, Pinelli si trovava prima a pranzo col Sottosanti (l’anarco-fascista) al quale consegnò anche un assegno di Lit. 15.000 per una copertura delle spese (incassato alla Banca del Monte). Poi si recò col Sottosanti in un bar di via Morgantini a Milano. Poi Pinelli iniziò una partita a carte con gli avventori del bar (tanti testimoni, compresi un poliziotto in pensione, Mario Stracchi, e uno ancora in servizio, appuntato Carmine di Giorgio), poi si recò a incassare l’assegno del suo stipendio da ferroviere alla stazione di Porta Garibaldi, poi si recò al circolo anarchico del Ponte della Ghisolfa e poi in quello di via Scaldasole, dove venne fermato da Calabresi. Pinelli, quindi, non può essersi suicidato perché gli è “crollato l’alibi”. Il suo alibi era fortunato per via degli incastri verificatisi e fortissimo. Domandiamoci ora se Pinelli potesse aver subodorato l’organizzazione degli attentati. Magari sì o magari no, di sicuro non per la giornata del 12 Dicembre altrimenti sarebbe rimasto tutto il tempo al bar a giocare a carte, un testimone disse che aveva già vinto Lit. 200 insieme a lui. Sarebbe stato un alibi meno rischioso rispetto all’alibi ad incastro. Diciamo ora che Pinelli conosceva Pietro Valpreda ma non era in buoni rapporti con questi. Aveva probabilmente chiesto a un giovane anarchico di Roma, Roberto Mander, di sorvegliarlo e di sorvegliare anche Olivio (Ivo) Della Savia, un altro anarchico amico romano di Valpreda. Forse lo riteneva un confidente della polizia, forse un provocatore e forse un sanguinario. E forse anche le Br milanesi avevano la stessa impressione. Resta da capire come è morto Pinelli. Propenderei, per un malore a seguito di un interrogatorio pesante, ma la certezza può averla solo chi era presente in quella stanza della questura. Ed erano in vari. L’interrogatorio pesante di Pinelli, considerata l’evidenza immediata di un suo alibi di ferro già prima del suo interrogatorio, va considerato come una persecuzione che lo ha portato alla morte? Decisamente sì.
Nella testa del commissario Luigi Calabresi
Calabresi era un poliziotto inserito a pieno titolo in quello che una volta si chiamava sistema, ma era una persona trasparente, che non mascherava le sue convinzioni, salvo pochi trucchi da “sbirro”, come lo scambiarsi dei libri in regalo per Natale con Pinelli. Insomma, i ruoli erano completamente chiari. Da ottimo sbirro quale era, Calabresi avrà capito in un attimo che l’alibi di Pinelli era fortissimo, non diciamo “a prova di bomba” solo per le circostanze. Oltre tutto, come visto, c’erano un poliziotto e un ex poliziotto tra i vari avventori che giocavano a carte nello stesso bar nel momento in cui si trovava lì Pinelli, anche lui a giocare a carte. Sicuramente sentiti nell’immediato da Calabresi. Quindi Calabresi sapeva benissimo che non avrebbe mai potuto incastrare Pinelli e che, per l’alto numero di testimoni nel bar coinvolti, non avrebbe potuto mai nascondere la verità sulla posizione di Pinelli nel bar e poi alla stazione Garibaldi durante quel fatidico 12 Dicembre. Allora adesso, visto che Pinelli è volato giù mentre Calabresi lo stava interrogando, ci si deve domandare se Calabresi (o qualcuno dei suoi grandi capi) avesse convenienza a uccidere Pinelli. L’unico vantaggio sarebbe stato quello di far credere che Pinelli si fosse suicidato a causa di un alibi debole, ma come visto, l’alibi era di quelli pesanti e conosciuto da troppe persone. Quindi, nonostante la cialtroneria di molti di quegli addetti ai lavori, escluderei quest’ipotesi. Poi, un omicidio come quello doveva essere concordato con i vertici massimi e, di contro, c’erano molti bassi gradi presenti, sia della polizia che dei carabinieri. Altra gente da far tacere nel tempo. Tra i neofascisti ci sono stati degli omicidi politici utili per rinvigorire delle indagini deboli, ad esempio, Carmine Palladino e Pierluigi Pagliai furono assassinati nel mezzo di un’accusa per la strage di Bologna, ma prima di arrivare a un loro interrogatorio dove potessero discolparsi e dopo molti mesi rispetto allo scoppio della stazione, quando gli alibi potevano diventare discutibili. Mentre Pinelli fu arrestato a caldo e il suo alibi era indiscutibile. Per completezza di narrazione, alla fine, per via di accuse costruite in modo ridicolo, anche i due neofascisti furono assolti, peccato che fu dopo il loro omicidio. Tornado a Pinelli, negli anni successivi si parlò giornalisticamente di un suo coinvolgimento provabile nel passaggio dei detonatori, ma si trattava solo della solita buffonata da parte di gente che scriveva al soldo del padrone. Mai tale tesi fu suffragata dagli inquirenti, oltre a non esistere nelle logiche fin qui espresse. Quindi Calabresi non aveva uno schema valido anche se avesse dovuto (e voluto) rispondere a un ordine dall’alto di assassinare Pinelli. Calabresi aveva in mano Valpreda e sicuramente avrebbe desiderato che, tramite Pinelli, si rafforzasse l’accusa a Valpreda. Ma Pinelli, come visto, pur avendo delle forti riserve su Valpreda, da vero rivoluzionario non si prestò a collaborare con lo Stato e, forse, fu “solo questo” il motivo della sua morte. Calabresi, secondo logica, quando a sua volta fu assassinato, morì per interposta persona, poiché, eventualmente, i veri responsabili della morte di Pinelli sarebbero stati i suoi capi, compresi i numerosi alti papaveri dei servizi segreti presenti in questura a Milano in quelle ore. Resta vomitevole la lista degli 800 leoni da tastiera ante litteram, che appoggiarono una petizione contro Calabresi, guardandosi bene dall’accusare i servizi segreti o il capo della polizia o il ministro degli Interni, che, nel caso, potevano essere gli unici veri responsabili. Sempre nella saga del riprovevole, è bene segnalare il comportamento del figlio di Calabresi che, una volta adulto, accettò di lavorare fianco a fianco con quei leoni da tastiera accusatori del padre, invece di sputare nella loro faccia.
Pietro Valpreda viene segnalato sulla scena della strage
Valpreda faceva di professione il ballerino ed era un anarchico convinto e forse arrabbiato. Venne visto sulla scena della strage da un tassista di provata fede comunista (prima e dopo i fatti), Cornelio Rolandi, e Valpreda doveva per forza essere notato perché prese quel taxi solo mt 180 prima dell’entrata della banca, poi chiese di essere aspettato mentre usciva dal taxi con una borsa, poi ancora rientrò nel taxi senza la borsa e chiese di ripercorrere gli stessi mt 180 all’indietro. Un comportamento che era impossibile non notare visto il minimo tassabile nelle tariffe dei tassisti. Una vera stranezza di cui ci occuperemo nella parte delle stranezze irrisolte. Detto ciò, si deve sempre aver presente che quello di Piazza Fontana doveva essere uno dei cinque attentati dimostrativi in contemporanea tra Roma e Milano, e che Valpreda, con ogni probabilità fosse conscio solo di quello. A parte alcune tesi farraginose e ridicole, sulla presenza di un doppio attentatore con un sosia di Valpreda, con doppia borsa e doppia bomba, vediamo quale potrebbe essere l’ipotesi alternativa e credibile rispetto a quella di questi terrapiattisti. Prima però escludiamo subito l’ipotesi di un Valpreda claudicante e quindi con la necessità di prendere un taxi anche per soli mt 180, grazie al fatto che, ancora più stranamente, non si lascia depositare esattamente davanti all’entrata della banca, ma circa mt 100 dopo, e quindi, nel caso, la sua mossa si sarebbe notata ancora di più. Proponiamo qui l’ipotesi che ci sembra abbastanza logica, ovvero che Valpreda si volesse premunire per un disimpegno sicuro nel caso dovesse rinunciare, per qualche motivo, all’attentato nel corso del suo svolgimento. Guardiamo una possibile sequenza in fiction dei suoi eventi:
- Aveva individuato una sosta dei taxi in posizione utile.
- Innesca il timer a mt. 180 dalla banca.
- Prende uno dei taxi disponibili dalla sosta.
- Vorrebbe dare l’impressione di non dover andare in banca e lo fa fermare mt 100 avanti.
- Si avvia verso la banca e vi entra.
- In banca, fatalmente trova un suo collega ballerino (fiction) che lo vede e magari lo saluta.
- A quel punto decide di rinunciare all’attentato (fiction), benché solo dimostrativo.
- Riprende il taxi e si fa trasportare in un posto vicino a dove può far brillare la bomba ormai già innescata da parecchi minuti (fiction), oppure è capace di disinnescarla senza pericolo.
Se invece Valpreda, come si può ipotizzare, non avesse incontrato nessun intoppo in banca, come con tutta probabilità successe, ecco che allora avrebbe depositato la borsa e, per non far irritare il tassista al quale aveva chiesto di aspettare, poi sarebbe risalito sul taxi e si sarebbe fatto riportare da dove l’aveva preso. Forse perché lì vicino poteva esserci o un appartamento o un’auto dentro la quale aveva innescato la bomba. Una trama che un qualsiasi bravo poliziotto potrebbe accettare come valida. Si capisce che per Valpreda dovesse trattarsi di un attentato solo dimostrativo perché altrimenti non avrebbe fatto la manfrina del taxi. Per un attentato dimostrativo, ovvero per una bomba che scoppiava a banca chiusa senza provocare vittime, l’enfasi investigativa sarebbe stata drasticamente minore e forse non si sarebbe neanche arrivati a individuare il tassista. Ad esempio, nessun testimone fu individuato per la bomba a Piazza della Scala, non scoppiò e l’attenzione di tutti diventò minima.
Il tassista Rolandi un uomo senza ombre
Anche se nella galassia di sinistra gli anarchici e il blocco sovietico non si erano mai piaciuti, con il Pci italiano appartenente in pieno al blocco sovietico, per questioni di immagine, un esponente del Pci che accusasse un anarchico non era visto molto bene neanche allora. Pur se, nella storia passata, i partiti stalinisti avevano spesso massacrato gli anarchici, la maggioranza delle persone, attivisti compresi, non avrebbero colto il senso di una severità come quella di Rolandi, membro del Pci, che denunciava Valpreda, un anarchico. Perciò, tutti a sinistra, pur senza dichiarazioni ufficiali, considerarono Rolandi come un appestato. Si narra che Rolandi ne soffrì tantissimo e visse una vita di malessere e di dispiaceri, chiuso in casa appena possibile. Eppure, Rolandi, si diceva al tempo tessera n°5 del Pci della sua sezione, doveva essere una persona onesta. Per sgombrare il campo dai dubbi sulla sua moralità, si può precisare che non ricevette nessun tipo di gratificazione governativa per la sua testimonianza e che invece fu per sempre considerato un reietto della sinistra. D’altra parte, la mossa dei mt 180 avanti e indietro poteva sfuggire solo a un cieco. La testimonianza di Rolandi fu invalidata con una magia da avvocati e forse anche grazie a una provocazione mal riuscita dei servizi segreti i quali potrebbero aver maldestramente costruito una prova (dei vetrini da laboratorio in una borsa) per rafforzare da altro lato l’accusa a Valpreda.
Le stranezze dell’indagine
Nessuno ha ben spiegato perché fu fatta brillare la bomba trovata inesplosa alla Comit di Milano. Nessuno ha mai spiegato come mai fu fatta sparire una parte dei documenti dell’indagine delle Br su Piazza Fontana. Avevano beccato qualche nervo scoperto del regime che era meglio non divulgare? Non hanno spiegato e forse non hanno ipotizzato dove fu innescata la bomba di Piazza Fontana. Doveva essere un luogo distante pochissimi minuti dalla banca, per i tempi del timer. Non hanno spiegato o ipotizzato di che provenienza fossero i detonatori per timer. Non hanno mai spiegato se c’era o non c’era una persona somigliante a Valpreda tra i sospettati di destra o di sinistra, rispetto alle affermazioni di Rolandi. Ci furono solo vaneggiamenti dei media. Come si può spiegare una tale trasandatezza? L’ipotesi più plausibile è che le indagini venissero orientate a seconda di quello che si doveva far credere all’opinione pubblica, cambiando direzione ogni qualvolta fosse servito. Non era importante la verità.
I neofascisti non appaiono mai sulla scena della strage
Per gli indagatori non sembra un problema che nessuno tra i neofascisti potesse aver collocato qualcuna delle cinque bombe. Per loro è semplice, i neofascisti strumentalizzarono gli anarchici per poi far ricadere tutta la colpa su di loro. Ma allora, ammesso che davvero i neofascisti fossero disposti a vendere gli anarchici per favorire lo Stato della Dc e della Nato, per di più rinnegando la loro indole rivoluzionaria, perché i neofascisti non denunciarono nessuno degli anarchici? Potenzialmente potevano venire denunciate cinque persone per i cinque siti dove furono piazzate le bombe, più almeno un paio di coordinatori. Tra destra (si fa per dire) e sinistra, si parlò di 80 indagati per la strage ma mai per nessuno risultò una denuncia o una soffiata da parte dei neofascisti. Sarebbe stato bello da parte degli inquirenti sputtanare qualche neofascista così almeno si corroborava la fanfaluca dei fascisti infiltrati e strumentalizzatori di anarchici. Invece mai niente. Invece di neofascisti perseguitati senza prove ne abbiamo a pacchi.
Le indagini di Adriano Sofri e delle Brigate Rosse
Adriano Sofri e Lotta Continua, implicati nelle vicende Pinelli-Calabresi, effettuano delle indagini in proprio atte soprattutto a salvaguardare la figura di Pinelli. Sembrano indagini svolte essenzialmente sugli atti giudiziari procurati dagli avvocati. Forse il loro obiettivo non è quello di accusare i neofascisti e infatti non li accusano. Nel covo di Robbiano di Mediglia furono trovati gli atti delle indagini effettuate in proprio anche dalle Brigate Rosse. Come detto, buona parte di quei documenti sono spariti ed è già stato segnalato nelle stranezze. Il resto lo si è appreso dalle voci di corridoio, forse dovute a un brigadiere di polizia che ne parlò estesamente. Da quanto si è saputo, la Br ebbero modo di dialogare con vari frequentatori dei circoli anarchici di Milano (e forse anche di Roma) e forse parlarono anche col tassista Rolandi. Sempre sui si dice, avrebbero tratto la conclusione che erano degli attentati di anarchici finiti con una tragedia imprevista.
La strategia della stabilizzazione
A questo punto, dovremmo domandarci perché gli inquirenti e i loro capi trasformarono Piazza Fontana nella strage madre? ovvero, chi fu il vero artefice della successiva strategia della tensione? Il messaggio del governo voleva essere: “Cari cittadini e cari lavoratori, i neofascisti vogliono sollevare i militari, in stile colonnelli greci, addossando alla sinistra la colpa delle bombe. Ma, tranquilli, vi proteggiamo noi e, anche se ci scioperate contro con l’Autunno Caldo, noi vi proteggiamo lo stesso e arrestiamo una marea di neofascisti”. Intanto, tutti sanno che i colonnelli greci andarono al potere con una telefonata della Nato e che lasciarono poi il potere con una seconda semplice telefonata della Nato. In uno scenario così, a che sarebbero serviti i neofascisti, pur volendoli vedere implicati in un rapporto innaturale con la Nato? In realtà, arrestando migliaia di neofascisti (quasi 2.000) negli anni a seguire, il regime ha stroncato le rivolte contro il governo create dai rivoluzionari neofascisti (tipo Reggio Calabria) e ha consolidato il suo potere smorzando la carica aggressiva dei sindacati e del Pci, tranquillizzati dalla propensione poliziesca rivolta da un’altra parte. I capi del neofascismo, Clemente Graziani, Franco Freda e Stefano delle Chiaie, furono dipinti come mostri mossi da un’ideologia di prepotenza e di sangue e, grazie a questa immagine, furono perseguitati in ogni angolo del mondo e così ogni loro proposta politica risultò oscurata poiché era la proposta di feroci assassini. Mentre era vero il contrario, i mostri erano nel regime e il sangue lo fecero scorrere in tutte le stragi successive, questa volta cercate proprio per uccidere. L’utile tensione risultata da Piazza Fontana aveva dettato loro la strada, come aveva ben capito Pasolini.
Ci sarà un altro Amato che dirà la verità su piazza Fontana come è stata detta oggi su Ustica?
Se, come appare in tutta evidenza, la strage di Milano fu un errore strumentalizzato e, se detta strumentalizzazione servì a creare l’inizio della strategia della tensione, gli artefici iniziali furono con tutta probabilità gli stessi che proseguirono con la scia di sangue successiva. Adesso, dopo tanti anni, c’è qualcuno tra magistrati, o poliziotti, o ministri, che vuole lavarsi la coscienza e dirci la verità? Dirci: “Sì, è vero, modificammo la realtà perché avevamo necessità di compiere altre stragi per arrestare i nostri nemici dopo averli accusati per anni di ogni nefandezza, invece da noi commesse, e dopo aver distrutto loro e le loro famiglie, pur sapendoli innocenti. Per consolidare il nostro potere”.
Carlo Maria Persano