Roma, 21 giu – L’oggettivo trionfo pentastellato alle amministrative ci deve indurre ad una riflessione scomodissima sulla loro parola d’ordine privilegiata, quell’onestà-tà-tà che sembra essere la panacea di tutti i mali. Abbiamo già smontato alcuni dei grandi miti di “economia magica” con cui si pretende che l’Italia possa ripartire, in particolare turismo e “terziario avanzato”, ovvero sviluppatori di futilità.
Parliamo oggi dell’onestà, facendo una necessaria premessa per evitare fraintendimenti: chi scrive nutre un disprezzo sincero e profondo per i sepolcri imbiancati che non seguono la regola dettata dal Cristo ai suoi discepoli: “E quando digiunate, non assumete aria malinconica come gli ipocriti, che si sfigurano la faccia per far vedere agli uomini che digiunano. In verità vi dico: hanno già ricevuto la loro ricompensa. Tu invece, quando digiuni, profumati la testa e lavati il volto, perché la gente non veda che tu digiuni, ma solo tuo Padre che è nel segreto; e il Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà”. Non occorre essere cristiani per apprezzare il significato profondo: chi grida ai quattro venti “sono virtuoso” nel 99% dei casi è un ipocrita ed un mascalzone. O, peggio, è un giacobino ossessionato dalla “purezza” e dalla “virtù” da imporre con la forza dello Stato, e per questo estremamente interessante ai fini della conservazione dello status quo. In effetti, ora come ora la parola “onestà” si identifica con il rispetto delle leggi vigenti. Il che può apparire razionale, ma è solo molto furbo, nel senso deteriore del termine. Non sfuggirà infatti che, se è vero che i politici in quanto cittadini devono rispettare almeno teoricamente le leggi, in quanto politici le devono scrivere. In altri termini, se al cittadino spetta essere onesto, alla politica spetta definire ciò che è onesto. Da qui il giacobinismo pentastellato parte per la sua squalificazione della politica: da luogo legislativo-esecutivo in cui la comunità si autodetermina, a gabinetto di funzionari esecutori selezionati non già in base alla capacità di tradurre i bisogni collettivi in decisioni, ma alla fedeltà con cui applicano le decisioni già prese.
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Vi ricorda qualcosa? Dovrebbe: è il medesimo principio su cui si fonda l’Ue, ovvero la pretesa che esista una decisione tecnicamente e non politicamente giusta, che bisogna prendere perché altrimenti le conseguenze saranno catastrofiche. La politica si gioca quindi non sulla contrapposizione di programmi, ma di zeli esecutivi da schiavetti felici di farsi le scarpe per far risaltare agli occhi del padrone. In altre parole, per un giacobino penstastellato, se io violo le leggi sono un criminale, ma se scrivo leggi criminali e personalmente non mi sono arricchito con la politica, allora sono un sant’uomo. Sappiamo benissimo che tutti i grandi crimini delle élite, dalle privatizzazioni alla distruzione dello Stato sociale fino alla precarizzazione della vita sono assolutamente legali, e che chi corrompe è sempre e comunque un pesce piccolo che vuole in qualche misura godere delle briciole che cadono dal banchetto dei grandi. A chi giova che, nei programmi elettorali, il rispetto delle regole preceda e/o sostituisca la critica delle regole? Evidentemente a coloro che le impongono. Non esiste nemmeno una correlazione particolare fra corruzione e crescita, come ampiamente dimostrato. Ed anche questo è evidente senza necessità di troppi calcoli: la corruzione non fa sparire magicamente danaro dalla circolazione, si limita a redistribuirlo in modo malsano, oliando alcuni ingranaggi ed inceppandone altri. Quello che fa realmente sparire soldi dall’economia reale è la legalissima adesione ai diktat di rientro del debito imposti dall’Europa, che massacrano la popolazione e le imprese.
Per quanto sia difficile da credere da chi ha messo il cervello all’ammasso del moralismo bottegaio giacobino, le politiche di un governo, in particolare le politiche economiche, sono utili o deleterie a prescindere da chi le pone in atto. So che praticamente tutti (non solo i grillini) hanno nella fede assoluta per la propria “differenza antropologica” un pilastro fondamentale della propria identità, ma è giunto il momento di crescere ed affrontare il mondo esterno. Se la qualità della vita pubblica dipende, prima di ogni altra cosa, dall’onestà dei suoi attori, allora la bontà delle regole non può essere messa in discussione se prima non si realizza quel rinnovamento morale necessario al loro buon funzionamento: cioè mai. Non c’è davvero limite alle applicazioni di questa strategia dialettica. Se le privatizzazioni non funzionano è perché i controllori si lasciano corrompere e gli appaltatori sono troppo avidi, se le tasse sono alte è perché ci sono gli evasori, se i voucher non rilanciano l’occupazione è perché c’è chi se ne approfitta, se l’Europa non mantiene ciò che promette è perché i paesi meridionali non rispettano i parametri, ecc. In breve, che le regole siano sbagliate non è mai un’opzione.
Vi ricordate Travaglio quando diceva che anche se fossimo uscito dall’eurozona l’Italia sarebbe rimasto un paese di merda popolato da gente corrotta? Bene, la mentalità è esattamente questa. Ovvero anteporre Cicerone o Seeneca, con le loro futili lamentazioni, a Machiavelli con il suo pragmatismo idealistico e patriottico. La scelta non pare essere difficile.
Matteo Rovatti