Roma, 2 feb – La cronaca dei principali quotidiani in questi giorni ha riportato la sentenza della corte di Strasburgo che ha dichiarato lecito l’utilizzo delle immagini di Gesù e Maria nelle pubblicità, di contro alla Lituania che aveva multato un’azienda, “per aver offeso la morale pubblica” proprio per l’utilizzo improprio delle immagini divine. Gli euro giudici hanno specificato che le pubblicità esaminate «non sembrano essere gratuitamente offensive o profane» e «non incitano all’odio». Forse i lituani non erano ben consapevoli che l’entrata nell’Unione Europea comporta anche questo, ovvero rinunciare alle specificità religiose per abbracciare il laico universalismo. Forse non sapevano che in Italia, ad esempio, già da anni una nota marca realizza simpatiche reclami su gustosissimi caffè presi alle soglie del paradiso da Santi ed anime entranti. Recentemente si era spinta ancora più oltre lo spot di una APP di servizi, che riproduceva alcune scene della vita di Giuseppe e Maria, rivisitate alla luce della moderna concezione di coppia. Non aiutano sicuramente a far recuperare una immagine di sacralità religiosa i filmati, diffusi in rete, di preti cristiani che ballano scatenati, oppure di messe cantate con melodie riprese dai canti partigiani della fine seconda guerra mondiale.
Oggi tutto ciò ci sembra normale, strappa delle risate anche ai più conservatori. Ma non è così ad esempio nell’Islam, dove vengono emesse, con una certa facilità, condanne a morte nei confronti di chi utilizza impropriamente le sacre immagini. Famoso è il caso della rivista francese Charlie Hebdo, che aveva pubblicato vignette satiriche contro Maometto, provocando poi una risposta piuttosto tragica e decisa di fanatici Islamici. Non spetta certo a noi giudicare le “faide” interne alle religioni monoteiste, né criticare o apprezzarne la laicizzazione, a cui spesso neanche più la minaccia delle pene nell’inferno o la promessa della beatitudine nel paradiso valgono a condizionare le vite dei fedeli. Ma, nel ripensare le regole di una civiltà che possa dirsi normale, potrebbe essere d’aiuto guardare al funzionamento delle cose nell’antica Roma. Non viene infatti mai ripetuto abbastanza come la grande differenza tra la civiltà di Roma e tutte le altre, era proprio l’importanza data al culto degli Dèi. La cura del sacro permeava tutta la civiltà romana e non esisteva azione degli uomini che non avesse una controparte religiosa. Non era quindi neanche lontanamente possibile immaginare l’utilizzo di immagini sacre per fini profani.
Al massimo rispetto per i propri Dèi, corrispondeva anche quello per le divinità altrui (tranne qualche rarissima eccezione). Famosa è la narrazione di Tito Livio di quando i Romani portarono a Roma la statua di Giunone da Veio appena conquistata: “Quando i beni privati erano già stati asportati da Veio, i vincitori cominciarono a portarsi via anche i tesori degli Dèi e gli Dèi stessi, pur facendolo però con spirito di autentica devozione e non con foga da razziatori. Infatti all’interno di tutto l’esercito vennero scelti dei giovani che, dopo essersi lavati accuratamente e aver indossato una veste bianca, ebbero l’incarico di trasferire a Roma Giunone Regina. Una volta entrati nel tempio pieni di reverenza, essi in un primo tempo accostarono piamente le mani al simulacro della Dea perché secondo la tradizione etrusca quell’immagine non doveva esser toccata se non da un sacerdote proveniente da una certa famiglia. Poi, quando uno di essi, vuoi per ispirazione divina, vuoi per celia giovanile, disse, rivolto al simulacro: “Vuoi venire a Roma, Giunone?”, tutti gli altri gridarono festanti che la Dea aveva fatto un cenno di assenso con la testa. In séguito alla storia venne anche aggiunto il particolare che era stata udita la voce della Dea rispondere di sì. Di certo però sappiamo che (come se la statua avesse voluto seguire volontariamente quel gruppo di giovani) non ci vollero grossi sforzi di macchine per rimuoverla dalla sua sede: facile e leggera a trasportarsi, la Dea approdò integra sull’Aventino, in quella zona cioè che le preghiere del dittatore avevano invocato come la sede naturale a lei destinata per l’eternità e dove in séguito Camillo le dedicò il tempio da lui stesso promesso nel pieno della guerra”.
Marzio Boni
Oltre il laicismo e l'integralismo: recuperare il senso romano del sacro
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Come si dice dalle mie parti: “la classe non si sciacqua”!