Roma, 26 dic – La Nazionale italiana ha concluso lo stage avviato dal commissario tecnico Roberto Mancini due giorni fa, prima della vigilia. Il quadro che ne è venuto fuori è da un lato desolante, dall’altro fertile di qualche speranza. La desolazione riguarda soprattutto le fonti da cui il Ct ha dovuto attingere per convocare giovani calciatori, senza le quali (andando avanti di questo passo) forse non ci sarebbe manco una nazionale azzurra.
Nazionale, lo stage che evidenzia una necessità: gli italiani devono giocare e crescere
Mancini rassicura sulla qualità, e chi scrive gli crede: la qualità in un Paese come l’Italia non manca mai, basta guardare le partite per rendersene conto. Si può entrare in naturalissime crisi generazionali, ma smettere di produrre addirittura calciatori a livello numerico, di punto in bianco, è dovuto a ben altro. Altrettanto diverso è formare calciatori completi e top, per quello ci vogliono tante altre componenti. Non solo riguardanti la buona disposizione dei calciatori stessi, ma anche la propensione a volerne sfruttare e far maturare le capacità di dirigenti e allenatori. Se sulla prima componente poco si può fare (se non sperare che il calciatore talentuoso di turno abbia la testa sulle spalle), sulla seconda si può fare moltissimo e – futile dirlo – da un decennio buono si fa molto poco.
Al punto che il Ct ha dovuto pescare addirittura nella metà classifica portoghese, nella squadra del Vitória Guimarães, per riuscire a trovare la sessantina di giovani che hanno frequentato lo stage. Ibrahima Bamba in questo caso. Che si aggiunge a quelli di Wilfred Gnonto, ma anche al tanto osannato Joao Pedro, ora sparito (chissà come mai, davvero) dai radar azzurri, interessatissimi a farsi salvare da stranieri travestiti da italiani. La realtà è evidente: mancano perfino i numeri per comporre una rosa. Bisogna essere veramente scemi per pensare che tutto questo sia dovuto a una tradizione scomparsa all’improvviso e non, piuttosto, a un “banale” delirio culturale. Se mancano anche i calciatori come numero, qualcuno almeno qualche domanda dovrebbe porsela.
Tutti si lagnano (qualcuno gode), ma nessuno che proponga una soluzione
Dalle testate più mainstream a quelle di maggior nicchia che si autoproclamano anticonformiste, sulla nazionale il pensiero è sempre lo stesso: “Non ci sono più talenti”. Ma soprattutto l’idiota e altrettanto inutile “non abbiamo più Baggio e Del Piero”. Ora, questi soloni super-preparati potrebbero almeno ragionare sul fatto che, se Mancini è costretto a cercare calciatori addirittura nella metà classifica portoghese, forse “i Baggio e Del Piero” non cadano esattamente dal cielo, ma ci voglia pure un approccio strutturale e culturale costruttivo per favorirne l’emersione. Senza contare che si potrebbe puntare sui tanti bravi calciatori che abbiamo, senza aspettare per forza i fenomeni stellari: il Mondiale appena concluso ha dimostrato quanto essi non trabocchino neanche nelle altre squadre nazionali, e tra i vincitori della manifestazione nelle edizioni passate ci sono esempi di rose non certo composte da super campioni tornate a casa con la coppa in braccio (si pensi alla Germania del 2014, il cui vero giocatore “top” assoluto, forse, era solo il portiere, Manuel Neuer). Il tutto condito dalla noiosissima retorica straccia-attributi secondo cui “ci sono meno ragazzi che giocano al calcio”.
Le cause, poi, sono sempre individuate nella scarsità delle scuole calcio medesime (sulla base di quali dati resta un mistero). Oppure alla demonizzazione diretta delle scuole calcio, che non si capisce su quale base vengono ritenute un’invenzione degli ultimi 10 anni: cari miei, le scuole calcio esistono almeno dai tempi della fondazione di Coverciano, e se pensate che “Baggio e Del Piero” siano stati presi direttamente dalla strada al Vicenza e al Padova o siete ignoranti o siete davvero intrisi di fantasticherie completamente lontane dalla realtà. Per non parlare nemmeno di quella sorta di “maledizione” la quale dalla sentenza Bosman (1996) in avanti, praticamente avrebbe portato gli italiani di colpo a smettere di saper giocare a pallone. Non si può dedurre diversamente, visto che la crisi comincia dopo il titolo mondiale del 2006, e quasi tutti i membri di quella rosa erano nati e cresciuti con il limite di tre stranieri per squadra in Serie A. Qualcuno (pochi) era emerso negli anni immediatamente successivi, comunque ben prima dell’invasione che ha portato i nostri club a sviluppare la sgradevole (oltre che inutile e dannosa) abitudine di andare a cercare talenti perfino in Uzbekistan, piuttosto che in patria. Chi pomposamente dichiara una presunta superiorità di questi stranieri che invadono il nostro campionato non merita neanche una risposta: la stragrande maggioranza sono calciatori normali se non addirittura mediocri. Non solo, anche controproducenti: se facciamo eccezione dell’Inter di Mourinho (2010), con una rosa strapagata a peso d’oro, i migliori risultati dei nostri club a livello europeo sono stati ottenuti sempre con una minima base di italiani in rosa e tra i titolari (la Juventus e la Roma, sebbene in una competizione minore come la Conference League). Dunque, poche chiacchiere, esterofili che non tifate Italia (e se la tifate, peggio ancora): conviene anche a voi, tanto più che i vostri amati club non hanno un euro in tasca da tempo immemore, e sarebbe conveniente anche per le loro finanze, pescare dai vivai nazionali. Non vincete nulla da un secolo, chi ama la nazionale ha un titolo europeo alzato appena nel 2021.
E le soluzioni dei piagnoni della stampa? Mai pervenute. Sembra tutto dovuto a una specie di volere divino incontrollabile, in un Paese dalla tradizione calcistica immensa come l’Italia. La conclusione – non dichiarata, ma sostanziale – è che il Marocco può programmare un suo futuro calcistico dall’alto, impegnandosi e riuscendo ad ottenere un risultato clamoroso ai Mondiali di calcio, riuscendo anche a fare emergere individualità di tutto rispetto. L’Italia no. Secondo questi sedicenti esperti dovremmo praticamente affidarci al caso. Tanto più che, anche ammesso e non concesso sia reale l’ultima leggenda, quella degli italiani “che non giocano più a pallone”, siamo convinti che editoriali come quelli di Contrasti, simbolici della depressione sportiva che investe questo Paese nonostante un titolo europeo vinto appena un anno fa, siano un notevole “incentivo” ad iniziare a calcare i campi. Per essere tristemente ironici, ovviamente. Senza nemmeno infierire sull’ipocrisia moralista – e ovviamente autorazzista – del pezzo, di cui vi invitiamo a leggere lo “splendido” finale, dove praticamente si ipotizza una presunta lontananza dai valori morali dei calciatori italiani come ragione della decadenza: siamo certi che le altre grandi nazionali brulichino di francescani dediti al pallone, di persone lontane dai vizi, dalla passione per donne, sponsor e soldi, in uno sport dove il migliore di tutti i tempi era un cocainomane perso: quanta ipocrisa e quanta pochezza, cari colleghi.
Noi la nostra soluzione l’abbiamo proposta, perché alle lagne e alla disperazione (escludendo la stucchevole e imbarazzante ipocrisia di cui sopra) accompagniamo progettualità e propositività: smetterla di cercare talenti ovunque tranne che in Italia (o quanto meno impiegarvi un’energia paragonabile) ma soprattutto far giocare e maturare quelli che ci sono. Senza imprigionarli in equivoci tattici che hanno spesso minato, negli ultimi dieci anni, i pochi che sono stati impiegati con costanza (soprattutto nei ruoli offensivi). Perché, per tornare alla “fenomenologia”, al signor Kylian Mbappé nessuno chiede grossi sacrifici difensivi: lo si sfrutta per le sue doti di attaccante, come è giusto che sia. Mentre molte nostre seconde punte di belle speranze, negli ultimi 15 anni, sono finiti a fare perfino i terzini. Ed è ora di finirla, il prima possibile.
Stelio Fergola