Roma, 13 nov – Immaginiamo di essere a Tokyo il 26 febbraio del 1936. Per quasi tutta la settimana precedente questa data ha nevicato copiosamente, evento che non si verificava da circa mezzo secolo nella capitale nipponica, ora coperta da quaranta centimetri di neve. Verso le principali sedi governative e militari e le residenze di diversi ministri stanno marciando dei piccoli drappelli di soldati, guidati da un gruppetto di giovani ufficiali dell’Esercito Imperiale Giapponese.
La rivolta del “Cammino imperiale”
Portano delle bandiere con il Sol Levante rosso al centro e delle scritte minacciose ai quattro angoli, che hanno il sapore di un programma di azione: quattro ideogrammi che significano “Venera l’Imperatore, distruggi i traditori”. I giovani ufficiali entrano nelle case di diversi ministri e li ammazzano a colpi di spada. Vanno a casa del primo ministro Okada Keisuke, ma non è in casa e per errore uccidono suo cognato, scambiato per il padrone di casa. Dopo le esecuzioni delle principali figure governative, i militari ribelli occupano il ministero della guerra dichiarando di “essere scesi in campo per senso del dovere nei confronti dell’Imperatore”. Per tre giorni il governo imperiale dialoga con i militari ribelli, cercando di ascoltare le loro richieste, ma facendo contemporaneamente circondare gli edifici occupati dai ribelli da truppe della marina (com’è noto, in Giappone all’epoca tra Esercito e Marina non correva buon sangue). Tre giorni dopo, il 29 febbraio, la Rivolta dei Giovani Ufficiali era ufficialmente finita. Il gekokujo, ovvero quel termine (genericamente tradotto con “insubordinazione”) che in giapponese designa “il rovesciamento degli anziani da parte dei giovani”, quel giorno era fallito. La fazione giovane e radicale dell’Esercito nota come Kodoha, la Fazione del Cammino Imperiale, non era riuscita questa volta a rovesciare quella vecchia e liberal-moderata, nota come Toseiha, la Fazione del Controllo.
Ikki Kita e il “Fascismo giapponese”
Fino all’anno successivo in Giappone si tennero processi ed esecuzioni contro i militari e i giovani ufficiali. Alla fine, si concluderanno con un bilancio di 19 ufficiali fucilati, 2 morti tramite suicidio rituale (il seppuku), un alto ufficiale, il tenente colonnello Saburo Aizawa, fucilato per un colpo di stato dell’anno prima, e più di quaranta incarcerati. Nel frattempo, era stato avviato un processo parallelo a quello contro i giovani ufficiali. L’imputato principale era un uomo che non aveva direttamente preso parte alla rivolta, ma era accusato di esserne stato l’ispiratore, tramite i suoi scritti e i suoi incendiari discorsi pubblici. Quell’uomo era un intellettuale e filosofo politico sulla quarantina, il cui nome era Ikki Kita e il suo principale scritto (all’epoca censurato e clandestino), di cui parleremo oggi, porta il titolo di Piano generale per la riorganizzazione del Giappone, non ancora tradotto in italiano, ma disponibile in inglese, per chi mastica la lingua. Vedremo quindi se, analizzando questi autori, si può davvero parlare di un vero e proprio “Fascismo giapponese” o se è solo qualcosa di vagamente simile, ma non assimilabile alle esperienze dei Fascismi europei. Classe 1883, Ikki Kita era nato in una delle più povere province giapponesi. Nonostante ciò, riuscì a studiare e a formarsi, con un particolare interesse per la storia europea, soprattutto per quelli che lui chiama eventi modernizzatori (o forze modernizzatrici, a seconda delle traduzioni). Teniamo a mente questo passaggio, perché sarà fondamentale per capire il nucleo centrale del suo pensiero.
La revisione del Marxismo in Giappone
Va ricordato che in quel momento, gli ambienti culturali e intellettuali giapponesi erano in ebollizione. Poco più di un decennio prima della Rivolta dei giovani ufficiali, nel 1924, era stata portata a termine, per opera del nazionalista socialista Motoyuki Takabatake, la prima traduzione giapponese de Il Capitale di Karl Marx. Persone come Ikki Kita e Motoyuki Takabatake entrarono dunque in contatto così con il socialismo: sia tramite le nuove traduzioni disponibili in giapponese, sia attraverso le notizie che giungevano dalla Russia sulla rivoluzione e sulla piega che stava prendendo. Tuttavia, la luna di miele tra il socialismo scientifico e questi autori (Takabatake in particolare) non durò a lungo. La loro “ammirazione” per tali avvenimenti non era dovuta infatti tanto ad una netta adesione ai dogmi e ai dettami del marxismo, quanto piuttosto invece ad una necessità di riaffermare con forza l’idea e la centralità dello Stato. Non stupisce infatti che lo stesso Takabatake, poco dopo aver portato a termine la traduzione de Il Capitale, sia entrato in rotta di collisione con i comunisti giapponesi (ancora legati ad una visione ortodossa del marxismo e dell’internazionalismo) per poi dare vita al Kenkokukai, una organizzazione socialista con una visione marcatamente nazionalista e statalista, che aveva come obiettivo principale “la creazione di un genuino Stato popolare, basato sull’unanimità e l’intima connessione tra il Popolo e l’Imperatore”, quello che nella cultura tradizionale giapponese è racchiuso nel concetto di Kokutai. Ikki Kita andò oltre. Dopo essersi anche lui disilluso sulle utopie marxiste basate su antistatalismo e internazionalismo proletario (già prima dell’azione culturale di Takabatake), iniziò ad elaborare un pensiero che pare quasi ricalcato su testi quali “Dottrina del Fascismo” di Giovanni Gentile o “La Marcia sul mondo” di Niccolò Giani.
Modernità e rinnovamento
Come dicevamo all’inizio, uno degli elementi della storia europea che più affascinò Ikki Kita sono i cosiddetti “eventi modernizzatori”, che potrebbe anche tranquillamente essere tradotto con “forze modernizzatrici” che però necessitano talvolta di una “spinta in più”, di un guizzo d’azione che faccia andare la storia più avanti ancora. E lui trova nella storia del Giappone un fatto analogo agli eventi modernizzatori europei: il Rinnovamento Meiji. Spendiamo due parole per inquadrare meglio ciò di cui stiamo parlando. Spesso si trova la traduzione letterale di “Restaurazione Meiji”, ma è abbastanza inesatto perché, se parametrato alla storia del Giappone è un concetto corretto, a noi europei rischia soltanto di creare confusione, dal momento che a noi la parola “restaurazione” evoca conservatorismo, reazione, repressione e Congresso di Vienna (mentre come vedremo, uno dei personaggi più affascinanti per Ikki Kita è proprio Napoleone Bonaparte). Per tale motivo, useremo la traduzione non letterale, ma che facilita la comprensione del fenomeno a noi europei, di Rinnovamento Meiji. Si tratta essenzialmente di un fenomeno attraverso il quale, nella seconda metà dell’Ottocento, il Giappone pose fine agli ultimi due secoli di feudalesimo (che durava dal XII secolo) della sua storia, periodo ricordato come shogunato Tokugawa. Fino al Rinnovamento Meiji (1866-1869), il Giappone aveva molti tratti comuni con una monarchia medievale europea, con un sovrano che governava solo pro forma, che era il simbolo della nazione, con un fortissimo significato sacrale e religioso, ma privo di qualunque potere politico effettivo. Il potere era di fatto in mano agli Shogun, dei capi militari nominati dall’Imperatore. Con il Rinnovamento Meiji, l’Imperatore ebbe effettivo potere e che affiancò così lo status di divinità (cui fu costretto a rinunciare solo dopo la sconfitta nel Secondo conflitto mondiale). Tutto questo, nel pensiero di Ikki Kita, è tranquillamente assimilabile a quei fenomeni modernizzatori europei come la conquista romana di una buona porzione dell’Europa nell’antichità, come la rinascita degli apparati statali a cavallo tra XV e XVI secolo e come la Rivoluzione francese e l’Età napoleonica. Possiamo supporre che, se avesse scritto i suoi testi principali dopo il 1922, tra gli eventi modernizzatori avrebbe incluso anche il Fascismo, ma non ne abbiamo la certezza, è solo una supposizione. Ricordiamo che il testo Piano generale per la riorganizzazione del Giappone risale al 1919, quando il movimento fascista era appena nato e di certo in Giappone ancora non se ne sentiva parlare molto.
La rivoluzione imperiale
Tuttavia, Ikki Kita ha un’idea molto chiara sui movimenti modernizzatori: spesso necessitano di un guizzo, di un colpo di mano, per arrivare ad una effettiva realizzazione. Per Roma tale “spinta” fu Cesare e poi soprattutto il Principato Augusteo, per la Rivoluzione francese fu il colpo di stato del 18 Brumaio per mano del generale Bonaparte. Un concetto, quello di spinta, che possiamo ritrovare anche negli scritti di Giuseppe Bottai, che nel 1924 definì il Fascismo come rottura della “concezione episodica della storia” e come violento riattivatore del moto ideale del Risorgimento. Si tratta dunque di far marciare la rivoluzione, di portarla a compimento. E per il Rinnovamento Meiji qual è il momento in cui un colpo di mano ha fatto marciare la Rivoluzione? Ebbene, secondo Ikki Kita ancora non è arrivato: per questo scrive un testo che porta il titolo di Piano generale per la riorganizzazione del Giappone, perché il 18 Brumaio del Rinnovamento Meiji deve ancora essere messo in atto. In questo testo i riferimenti a Napoleone e al 18 Brumaio sono molteplici, per fornire un precedente storico e ideologico alla sua idea di “completamento del Rinnovamento Meiji”. Il Piano generale di Ikki Kita è strutturato in più fasi, che non tratteremo tutte per filo e per segno, ma che possono essere schematizzate in questa maniera: una prima fase di preparazione alle condizioni materiali per avviare la riorganizzazione, una seconda fase che costituisce la riorganizzazione effettiva e infine una terza fase che sarà la struttura politica e sociale del Giappone dopo il processo di riorganizzazione, con la sua nuova burocrazia, i suoi obiettivi e la sua “missione storica del popolo”.
Le fasi della riorganizzazione
La prima fase, dunque, è incentrata sull’azione preparatoria per la riorganizzazione dello stato giapponese. Si parla di provvedimenti radicali come la sospensione della Costituzione nata dal Rinnovamento Meiji, della connessione che dovrebbe esistere tra l’Imperatore e il Popolo e dell’abolizione della nobiltà che ostacola tale connessione spirituale. Ma anche della creazione di organi deliberativi straordinari che dovranno assistere l’Imperatore durante il processo di riorganizzazione. In queste pagine non si contano i richiami a Bonaparte e al 18 Brumaio, ma anche i concetti che ci possono sembrare familiari, che leggendoli ci fanno tornare in mente le pagine di Carl Schmitt sul decisionismo politico, sullo stato di eccezione e sul binomio amico-nemico. La seconda fase invece è focalizzata sui concreti provvedimenti da attuare con la riorganizzazione: confisca della proprietà in eccesso (già sentita vero? Confisca della ricchezza improduttiva…), limitazioni alla proprietà e all’impresa privata, organizzazione del nuovo stato rinnovato sotto la suprema autorità dell’Imperatore, riorganizzazione della produzione, dell’Esercito Imperiale e della Marina Imperiale. La terza ed ultima fase riguarda invece il funzionamento e gli obiettivi dello Stato a riorganizzazione avvenuta. Parliamo di diritti e doveri dei cittadini nel nuovo stato riorganizzato, educazione nazionale, coscrizione obbligatoria, diritti e doveri del lavoratore. Ma anche di politica estera, di espansione per l’accrescimento del Grande Impero Giapponese. In questo c’è di più che un “delirio militarista e imperialista” come l’ha definito un critico giapponese post-Seconda guerra mondiale. C’è l’idea di una vera e propria Missione Imperiale del popolo giapponese. L’idea di un Giappone che si pone come vera e propria guida di tutta la sua area geografica: ciò che Roma ha rappresentato per il Mediterraneo, il Giappone lo rappresenterà per il Pacifico.
Popolo, Stato, Imperatore
Detto tutto questo, torniamo alla domanda che ci siamo posti all’inizio: è possibile parlare di Fascismo giapponese alla luce di quanto abbiamo detto? Se assumiamo che esso, per essere tale, non deve necessariamente riproporsi nei medesimi termini in ogni caso specifico, allora sì, certamente per autori come Ikki Kita e Motoyuki Takabatake o per movimenti come il Kenkokukai e il Tohokai (Società d’Oriente, fondato nel 1936 da Nakano Seigo) possono essere certamente inquadrati tra i Fascismi. Appunto, i Fascismi, non il Fascismo unico, monolitico e immutabile. Loro stessi, i fascisti giapponesi, non avevano l’idea di importare le esperienze italiana e tedesca così com’erano nel paese del Sol Levante. Erano ben consapevoli che l’Italia è l’Italia e il Giappone è un’altra cosa. Un esempio su tutti: nel pensiero di questi autori, non si trovano particolari accenni alla dottrina dello Stato, come invece è nel pensiero fascista (tutto è nello stato, niente al di fuori dello stato), per il semplice fatto che in Giappone questa idea era già presente (e in parte già radicata nella cultura comune) tramite il concetto di Kokutai, l’intima connessione tra il Popolo, lo Stato e l’Imperatore. Anche l’idea di “mito mobilitante” è fortemente ripresa e presente in questi pensatori nipponici: in Italia è lo Stato sorto dal Risorgimento e dalla Grande Guerra, in Germania è il Volk che è stato pugnalato alle spalle alla fine della Prima guerra mondiale e in Giappone il mito è il Popolo giapponese, connesso con l’Imperatore, che deve porsi come guida dell’Asia scacciando le potenze capitaliste occidentali, Gran Bretagna e Francia in primis. Questo processo, secondo Kita e Takabatake, era già cominciato con la Guerra russo-giapponese del 1905, con cui il Giappone (dopo la vittoria di Tsushima) si era saldamente impiantato in Manciuria. Andava però portato avanti e per farlo serviva la riorganizzazione dello Stato, serviva il 18 Brumaio del Rinnovamento Meiji. E il 18 Brumaio arrivò il 26 febbraio 1936 con la Rivolta dei giovani ufficiali della fazione Kodoha, ma come abbiamo detto all’inizio quel colpo di mano fallì. Ventidue uomini vennero fucilati per la rivolta materiale e ad essi nel 1952 venne eretta la Tomba dei ventidue Samurai. Ikki Kita dopo un processo sommario venne ritenuto colpevole di aver ispirato la rivolta e per questo venne condannato a morte e fucilato il 19 agosto del 1937.
La Grecia dell’Asia
Ma nonostante la sua esecuzione e la pluri-censura subita dai suoi testi, le sue idee e i suoi progetti continuarono a circolare, sia tramite l’azione del movimento Tohokai di Nakano Seigo, sia tramite l’influenza che essi ebbero su una parte dell’Esercito Imperiale (in particolare, quel che restava della fazione Kodoha dopo la sconfitta del 1936). E oggi, in un periodo in cui in Giappone per la prima volta dal 1945 si parla di riarmo, le parole conclusive di Ikki Kita nel suo Piano generale offrono uno spunto estremamente prezioso e interessante, oltre ad apparire come un monito alla nazione del Sol Levante: “Il Giappone, il quale è ora per l’Asia ciò che la Grecia Antica è stata per l’Europa, ha distrutto la potente Persia – ovvero la Russia – nella Battaglia di Salamina – ovvero la Battaglia di Tsushima. Il risveglio di 700 milioni di persone in Cina e in India iniziò in quel momento. La pace senza lotta non è la via per la grandezza”.
Enrico Colonna