Roma, 19 mar – Se c’è una cosa che Bong Joon-ho ci insegna con Mickey 17, è che l’umanità può spingersi oltre i confini del pianeta, clonare se stessa all’infinito, rimescolare i propri corpi con la macchina ma restare comunque lo stesso casino di sempre. Un futuro avanzato pieno della solita materia organica comunemente detta merda.
Il grottesco divenire di Mickey Barnes
Tratto dal romanzo di Edward Ashton, il film segue Mickey Barnes, uno stupido e goffo lavoratore “sacrificabile” che viene clonato (o sarebbe meglio dire “ristampato”) ogni volta che muore in una missione spaziale. L’operaio perfetto, la cavia ideale e il capro espiatorio di una colonizzazione che procede verso il pianeta Niflheim, un mondo gelido che richiama senza troppe metafore il regno del ghiaccio e del freddo della mitologia norrena. Ma invece di essere una cupa e flaccida riflessione sulla condizione postumana, il regista sudcoreano ci regala a suo modo un incubo tragicomico: un continuum in cui il progresso tecnologico non ha reso gli esseri umani né più saggi né più efficienti, nemmeno più oscuri e malvagi, soltanto un branco di “scimmie spaziali”. Un universo in cui la miseria umana si ripete, ciclica, come un brutto scherzo. Se Céline ci ha mostrato la storia come un eterno ritorno di bassezze, se Lovecraft ci ha narrato l’orrore senza scopo dell’universo, Bong ci fa vedere che anche tra astronavi e clonazione, l’essere umano resta un essere grottesco, isterico, mediocre e pieno di contraddizioni. Il risultato è un film che sembra un esperimento accelerazionista andato storto: l’umanità non si evolve, ma si moltiplica senza fine come un virus senza scopo.
Il corpo intercambiabile: la parodia del transumanesimo
Nel pensiero di Nick Land, uno dei pensatore più controversi e “inclassificabili” degli ultimi vent’anni, l’accelerazione tecnologica avrebbe dovuto portarci a un oltre-uomo cibernetico, a un’intelligenza che si libera delle zavorre biologiche. In Mickey 17, però, il risultato è sicuramente molto meno nobile: l’umanità non si trascende, si trasforma in oggetto. Non diventa una supermente ma prodotto in serie. Mickey è il lavoratore perfetto per il capitalismo del futuro: si rompe, si butta, se ne stampa un altro. Un QR code con un corpo. Eppure, nonostante la sua natura “fungibile”, Mickey conserva tutte le fragilità della carne. Ha paura, soffre, desidera sopravvivere. Ogni nuova versione di lui è consapevole di essere solo l’ennesimo tassello di un ciclo senza senso. Ed è qui che il film trova la sua verve grottesca: mentre la tecnologia promette il superamento della morte, il super-capitalismo dai tratti usurocratici la usa per rendere l’uomo ancora più sacrificabile. È la parodia del transumanesimo: l’individuo non diventa un dio, ma solo uno scarafaggio più resistente.
Il futuro: incubo burocratico e farsa sociale
Bong Joon-ho ha sempre avuto attenzione particolare per la critica sociale (Snowpiercer, Parasite), ma in Mickey 17 il suo sguardo diventa ancora più feroce e più sarcastico. Il futuro ipertecnologico che descrive attraverso la vita di Mickey non è governato da una tecnocrazia superiore, e nemmeno dalla fredda mente artificale di uno “Skynet”, ma bensì da una burocrazia meschina, da gerarchie aziendali che fanno il loro lavoro con la stessa mediocrità con cui si gestisce un call center. Chi non paga finisce nel tritarifiuti, letteralmente. Non c’è riscatto e niente rivincita sociale: ogni volta che Mickey muore, la sua nuova versione deve riprendere il lavoro da dove era stato interrotto, mentre il resto dell’equipaggio continua a trattarlo con la stessa indifferenza con cui si sostituisce una batteria scarica. È un futuro che non ha niente di epico, niente di grandioso. Solo uomini frustrati che arrancano nello spazio come arrancavano sulla Terra, con l’unica differenza che nello spazio possono stampare nuove versioni di sé. Questa è il tratto certamente più “céliniano” del film: non c’è nessun senso del destino, nessuna grande narrazione. Mickey scappa nello spazio a causa dei debiti. La spedizione è guidata da un politico mediocre “trombato” alle elezioni. Piccoli uomini in un universo troppo grande che ripetono le stesse miserie, le stesse furbizie e gli stessi errori, con poche consolazioni.
L’auto-miglioramento è masturbazione. L’auto-distruzione…
Il vero orrore del film non è tanto la sostituibilità di Mickey, resa con una regia che accentua il corpo di Robert Pattinson come oggetto-rifiuto, ma il fatto che la sua esistenza non porta da nessuna parte. Ogni volta che muore e viene rimpiazzato, la sua condizione non cambia: è condannato alla riproduzione infinita di se stesso. Una noia cosmica, insomma. L’ossessione dell’umanità per la sopravvivenza si riduce a una commedia ripetitiva e assurda. Mickey 17 non è solo una distopia futurista, ma la feroce parodia dell’idea stessa di progresso infinito. Se Céline ci ha mostrato l’uomo inchiodato alla sua miseria morale in un’Europa in decadenza, Bong Joon-ho ci porta nella vastità dello spazio per dirci la stessa cosa: cambiano i pianeti, i corpi e le tecnologie, ma la farsa umana continua, inarrestabile e ridicola. Una visione che però non si rassegna. Il film infatti prenderà una piega ancora più folle, rinnovando quell’idea che già Fight Club aveva esplicitato: “è solo dopo aver perso tutto che siamo liberi di fare qualsiasi cosa“. Toccare il fondo, che altro non è che sperimentare il dolore e la lotta in cui l’uomo capisce la finitezza della sua vita, per abbracciarla positivamente e diventare un Übermensch che creerà da solo il suo scopo e il suo destino. Jack/Tyler Durden aveva rinunciato a tutto ciò che era superfluo, Mickey Barnes perde tutto ciò che lo rende uomo: entrambi si “sdoppiano”. Entrambi, alla fine, diventano l’esatto opposto dell'”ultimo uomo”.
Sergio Filacchioni