Cerca il coraggio dove puoi:
la notte è lunga, deve trovare il giorno.
(IV.III)
Roma, 9 gen – In certe opere letterarie particolarmente degne di nota non è difficile riconoscere alcuni riferimenti simbolici alla cultura integrale. Questi richiami celati e magari sbiaditi alla tradizione primordiale hanno fatto la loro comparsa nella narrativa per lo meno a partire dal XII secolo, riecheggiando la lotta tra guelfi e ghibellini. Allora simboli e miti della tradizione precristiana si fecero largo in racconti e leggende, tra cui in modo eminente in quella del Graal. Con la distruzione dell’Ordine dei Templari intorno al 1300 anche il mito del Graal sembra scomparire e con esso lo spirito della cavalleria. Dai resti dell’Ordine presero forma alcune confraternite iniziatiche tra cui i Fedeli d’Amore, l’ermetismo e, traendo spunto da quest’ultimo, i Rosacroce. Questi, fondati sul finire del XIV secolo da tale Christian Rosenkreuz, costituirono un sodalizio che Evola definisce non militante, intento cioè a forme iniziatiche puramente teoriche, interiori e artistiche(1). L’attività dei Rosacroce andò in letargo per 120 anni alla morte del fondatore, per riprendere nel 1604. Sotto forme mimetizzate, il rosacrocianesimo ricomparì ad Heidelberg, nel Palatinato, presso la corte di Federico V. Questi, illuminato amante della cultura, sposò Elisabetta d’Inghilterra, amica del drammaturgo William Shakespeare e vicina a correnti esoteriche rosacrociane. La giovane era figlia della Grande Elisabetta, protettrice di Giordano Bruno. Secondo Gabriele La Porta il celebre drammaturgo William Shakespeare conobbe Bruno e almeno dopo il 1600 entrò in contatto, forse per mezzo della sua compagnia di attori, con i Rosacroce, tanto che gli spettacoli delle sue opere più tarde e mature, influenzate dagli insegnamenti della confraternita, vennero ampiamente promosse alla corte di Federico V(2). Quanto fossero consapevoli e debitamente approfondite alcune scelte artistiche del Bardo, non è dato sapere, certo è che in una delle sue più grandi opere, il Macbeth, si possono evidenziare alcuni temi affini non soltanto in superficie al mito originario indoeuropeo.
Per i Greci il teatro era un momento di alta religiosità comunitaria. In modo non dissimile può essere vista l’arte di Shakespeare così come quella di Richard Wagner: in questi autori si concentrano simboli e forze superiori che, talvolta poco compresi, hanno comunque un potere evocativo non trascurabile.
I temi significativi tratti dal Macbeth che si cercherà di chiarire in questa sede sono: l’usurpazione del regnum e la virilità degradata; il rito d’iniziazione e la società di uomini; la vendetta e la restaurazione del potere regale.
L’usurpazione del regnum e la virilità degradata
Com’è noto il dramma shakespeariano è costruito attorno all’ambizione del protagonista il quale, condizionato dall’apparizione di tre streghe (le norne), abbandona la virtù passata per cedere alle pressioni della moglie nell’ordire il complotto che realizzi quanto predetto dalla visione: «Salve a Macbeth, che un giorno sarà re!». In preda a dubbi e timori, il Barone Macbeth si lascia guidare da Lady Macbeth («…metti nelle mie mani l’opera di questa notte…»), che lo spinge ad approfittare della visita di re Duncan presso il castello di Inverness per compiere il regicidio. Il re di Scozia verrà pugnalato nel sonno e i pugnali insanguinati verranno messi nelle mani delle guardie ubriache all’esterno della stanza. All’arrivo del nobile Macduff, Macbeth inscena lo sdegno per il tradimento e uccide i presunti colpevoli prima che possano parlare. Macduff raggiungerà in seguito Malcolm, figlio del defunto re, in Inghilterra per riunirsi in consiglio di guerra. Macbeth intanto viene nominato re.
Secondo il mito indoeuropeo il regno è lo spazio del divino, dove cioè il re, colui che fa da tramite tra la terra e il cielo, ha il compito di applicare la legge divina secondo verità e giustizia. L’usurpazione è un atto sovversivo in quanto mette in discussione il potere legittimo non da una superiore legittimità, ma spinto dai bassi impulsi (Evola direbbe tellurici) di ambizione incontrollata, sete di potere e rottura dell’equilibrio interiore. Secondo il mito del Graal è con l’usurpazione di Mordred e la battaglia che ne segue che Artù si ritira, malato e ferito, sull’isola di Avalon in attesa della venuta del cavaliere puro e retto che potrà rinsaldare la spada spezzata e rigenerare il potere regale. In modo non dissimile ad esempio il Beowulf, la Voluspa ed Esiodo indicano nella ribellione delle forze oscure, primitive, telluriche e titaniche contro il principio regale e solare il momento decisivo in cui tramonta l’ordine legittimo ed ha inizio la decadenza. Sarà quindi compito degli eroi olimpici compiere la vendetta e restituire nuova vita al regnum(3).
Shakespeare insiste sul ruolo di Lady Macbeth, dando a intendere che la sanguinaria allucinazione sovvertitrice è frutto di una femminilità sfrenata e squilibrata perché priva del suo centro maschile(4). Macbeth appare infatti come un uomo debole, manipolabile, in cui si esprime una virilità degradata che si lascia trascinare dall’eccesso: «e ancor più uomo saresti se osassi ora di più». Non soltanto questa mascolinità incerta si lascia guidare dalla volontà smisurata di una donna (si tengano sempre a mente, inoltre, le norne), ma distrugge con l’assassinio il simbolo eminente del centro solare e virile rappresentato dal re. Precisamente nell’incapacità di riconoscere un superiore principio si evidenzia la perdita di autodominio e conoscenza di sé.
Privo di centro, non è a sua volta in grado di fornire solidità al regno, sul capo porta una «corona sterile». Questo è d’altra parte nell’ordine delle cose, poiché come detto l’usurpazione stravolge la natura divina del regnum per dare ampio sfogo a una hybris tellurica e titanica(5), comandata da bassi istinti e priva del freno fornito dall’asse virile. Macbeth e la sua sposa sono preda di cruente allucinazioni, terrorizzati dalle conseguenze delle loro scelte. Intanto il regno di Scozia cade sempre più nel caos, ovunque regnano ingiustizia e menzogna. «Il cielo turbato dalle azioni dell’uomo minaccia il suo sanguinoso teatro. L’orologio indica che è giorno, eppure le tenebre ancora soffocano il viaggio del sole».
Il rito d’iniziazione e la società di uomini
Qui entra in campo la figura dell’eroe vendicatore. Nella leggenda del Graal, per esempio, saranno di volta in volta i vari Parsifal, Galahad o Bors, a superare le prove iniziatiche richieste e a potere infine guarire il re ferito e restituire vita al regno. Nel lasso di tempo di oscurità e decadenza il re viene qualificato come “vivo e non vivo”, a indicare che il principio regale pur non essendo visibile, non cessa di valere come principio divino. Come Arjuna nella Bhagavadgita, il cavaliere della Tavola Rotonda che compirà l’impresa deve dimostrare di essersi staccato dai legami terreni, dalle proprie passioni (è casto) e dal proprio interesse individuale. Con le parole della Bhagavadgita: «non è preda di vane aspettative ed è padrone della sua anima: ha rinunciato a ogni possesso e soltanto il suo corpo agisce»(6), è dunque purificato. L’eroe porta con sé una serie di riferimenti solari e regali che affondano nel mito olimpico: la folgore di Apollo, la quercia sacra che torna a fiorire(7), la barca trainata da cigni, l’isola o montagna sacra.
Shakespeare chiama l’eroe vendicatore del suo dramma, Macduff, a una serie di eventi che hanno tutti i caratteri del rito iniziatico. In Inghilterra, presso la corte di re Edoardo, il nobile si trova dapprima a discutere con Malcolm, il legittimo erede al trono, sul disastro politico che sta travolgendo la Scozia. Malcolm si descrive al proprio interlocutore come un mostro peggiore di Macbeth, divorato dall’ambizione e dai più bassi impulsi: «a paragone delle mie infinite colpe, il paese lo ricorderà come un agnello». Se dapprima Macduff sembra sminuire le accuse che l’erede rivolge a se stesso («sono vizi veniali questi, che altre virtù bilanciano») infine lo condanna senza remore: «tu, regnare? Tu non dovresti vivere». Qui avviene la rottura, Malcolm si rivela per ciò che è, spiegando sinteticamente quali siano le reali virtù del buon sovrano e confermando la sua piena fiducia in Macduff in un momento in cui molti tradiscono: «mi affido a te, rinnego ciò che ho detto, abiurando le colpe di cui mi sono accusato, come estranee alla mia natura».
Superato questo primo tranello, Macduff è chiamato ad affrontare un prova ben più ardua. Accusato falsamente di aver abbandonato la sua famiglia in Scozia in balia degli eventi, viene in seguito raggiunto dalla notizia che Macbeth, ormai fuori di sé per il timore di essere spodestato da «un non nato di donna», ha fatto sterminare tutta la sua famiglia. Macduff cade nella prostrazione più profonda ma, con un rapido gioco di battute stranianti («Abbi coraggio. Una ferita mortale si cura vendicandola» e subito dopo l’esortazione «Sii uomo»), i suoi interlocutori lo spronano ad essere uomo, a reagire con forza alla tragedia. Macduff dunque si scuote e assieme ai suoi camerati è pronto per l’ultimo atto: «Ma, Dio pietoso, rompi ogni mio indugio: mettimi a portata di spada il mostro di Scozia, testa a testa». Malcolm invita allora Macduff ad affilare la sua spada su una roccia, come atto preparatorio alla vendetta finale: «Affila la spada su questa pietra, converti in collera lo strazio. Il cuore, non placarlo, ma infiammalo». Qui torna forse il tema della pietra di fondazione, che in varie tradizioni riveste il significato simbolico dell’autorità indistruttibile, immobile ma celata, muta(8).
Gli eroi della tragedia si trovano poi nel bosco di Birnan in vista dell’assedio a Dunsinane. Lady Macbeth è morta, re Macbeth è preso da un furore incontrollato, lui sovrano dalla corona troppo pesante(9). Il simbolo del bosco indica forse un rinnovarsi del legame con le radici più profonde, con l’eredità degli avi(10).
Senza voler forzare troppo la mano, è tuttavia possibile a questo punto individuare il riferimento alla società di uomini come base fondante di ogni nuovo ordine politico(11). Come per il ciclo arturiano, anche qui è attorno a un manipolo di uomini che si preparano le condizioni per la rinascita del regno secondo giustizia. Si forma una setta di spade, un clan eroico, radunato attorno a un nuovo e superiore principio fondatore che attraverso un rito iniziatico provochi, per dirla con Evola, «una rottura di livello, il distacco dal piano naturalistico e vegetativo»(12). Il cielo manda allora segnali inequivocabili, la vendetta divina sta per abbattersi: «Macbeth è maturo per cadere, e le potenze in cielo snudano le armi».
Vendetta e restaurazione
Macbeth combatte sicuro di sé, poiché le streghe gli hanno detto che nessun «nato di donna» potrà ucciderlo. Nella mischia si fa largo Macduff, rinato attraverso le prove iniziatiche e ammesso nella cerchia dei guerrieri. Lui si presenta al regicida come «non nato di donna», «estratto prematuramente dal grembo di sua madre». Macbeth vacilla, Macduff lo decapita in una sorta di moto ciclico che riporta alle battute iniziali del dramma, quando il nobile Macbeth uccide il ribelle Macdonwald.
Il contrasto tra maschile e femminile non potrebbe essere più netto. Macbeth, la mente obnubilata («quel che è certo è che non governa più il suo destino forsennato»), dominato da bassi impulsi, guidato dalla sua folle sposa, preso nella ragnatela di un incubo, rappresenta la virilità decaduta, l’usurpatore; Macduff è invece una sorta di uomo primordiale, che ha tagliato i ponti col mondo esterno, che non ha ambizioni personali né legami affettivi, ma a cui restano solo al fedeltà al principio regale e l’onore guerriero. Non solo uomo senza moglie e senza figli, privo di legami col mondo, ma anche non nato di donna. Macduff è insomma il simbolo della virilità assoluta. Qui si compie la vendetta, il centro viene ristabilito, la corona torna al legittimo erede e la Scozia può finalmente ambire a un futuro di giustizia e prosperità sotto il buon re Malcolm. Il fatto che Macduff non diventi re, come diversamente sarebbe accaduto nelle leggende più antiche, non deve stupire più di tanto. In primo luogo è un arguto stratagemma narrativo, poi è simbolo di un distacco ancora superiore dal proprio interesse personale a favore di un compito più grande e, in ultimo, potrebbe perfino rappresentare una mancanza nello stesso Macduff, il quale forse è fin troppo uomo, avendo cioè in sé annullato completamente il lato femminile.
Secondo l’insegnamento Rosacrociano l’asse verticale e quello orizzontale, il maschile e il femminile, i divini e i mondani, quando s’incontrano in un equilibrio operativo danno origine a una nuova vita (la rosa) che è una più-che-vita, una vita autentica radicata nel destino comunitario, per dirla con Heidegger. La rinuncia apre dunque a una affermazione più grande e alta. Questo è il crisma della regalità originaria ed è in fondo l’esito ultimo della grande guerra santa combattuta dal guerriero.
Conclusioni
Il Macbeth è una delle grandi tragedie dell’Europa moderna. Se Carl Schmitt aveva indicato nell’Amleto il riferimento immaginario dell’incapacità politica del Vecchio Continente, un’osservazione più attenta al Macbeth dovrebbe indurre a farne uno dei riferimenti culturali di una possibile riscossa eroica del principio originario europeo. Come si è tentato di mostrare, il dramma in questione riassume una serie di temi dal grande potenziale mitico-politico, cioè in grado di spronare le forze migliori dell’uomo europeo a connettersi col seme e le radici più nobili della tradizione primordiale. Le mura del castello possono crollare sotto la spinta di forze soverchianti e cupe, il tradimento può crescere all’interno della stessa stirpe, il centro può venire occultato, ma sempre resisteranno le idee senza parole che il tempo non scalfisce e il simbolo solare della regalità originaria mantiene immutata la sua potenza evocativa come immobile pietra di fondazione.
Francesco Boco
NOTE
1) Cfr. Julius Evola, Il mistero del Graal, Ed. Mediterranee, Roma, p. 178 e seg.
2) Gabriele La Porta, I Rosacroce: i sacri attori, testo online https://gabrielelaporta.wordpress.com/tag/rosacroce/. «L’ipotesi è che i Rosacroce fossero la compagnia teatrale di Shakespeare. Date, luoghi, contenuti coincidono in modo impressionante. E non dimentichiamo che il drammaturgo inglese era amico di Elisabetta la Grande, protettrice di Giordano Bruno, il mago che diffuse la “scientia” in Europa».
3) J. Evola, op. cit., p. 122: «L’eroe ammesso al castello del Graal è tenuto a risanare, riaffermare o assumere il regnum».
4) Ad es. «Spiriti che presiedete ai pensieri di morte; cancellate il mio sesso, stivatemi di crudeltà dalla corona ai piedi!».
5) Pio Filippani Ronconi, I principi metafisici della regalità indiana in C. Bonvecchio, La spada e la corona, SEB, Milano, p. 7: «La figura del Re costituisce per il suo popolo non solo il simbolo, ma anche la dimensione metafisica del suo essere».
6) Bhagavadgita, IV.21.
7) Curiosamente, la terza visione di Macbeth, per lui infausta, al IV.I è un «bambino incoronato, con un ramo d’albero nella mano».
8) Cfr. C. Bonvecchio, op. cit., p. 25: «la pietra esprime il raccordo simbolico tra cielo e terra, assumendo la valenza di un axis mundi».
9) «Gli attributi stessi del comando sembrano sventolargli addosso come il mantello di un gigante su un nano che l’abbia rubato».
10) Cfr. J. Frazer, Il ramo d’oro, Newton & Compton, Roma.
11) J. Evola, Gli uomini e le rovine, Ed. Mediterranee, Roma, p. 73: «Il principio generatore delle comunità propriamente politiche deve esser cercato […] sul piano delle cosiddette società di uomini» (mannerbund, ndr.).
12) Ibidem, p. 74.