Lussemburgo, 17 set – Quando si parla di paradisi fiscali in Europa non si può fare a meno di pensare al Lussemburgo. Anche se per la verità anche in Olanda non scherzano. Il Granducato, però, spiazza tutti: ha 600 mila abitanti, ma accoglie investimenti diretti dall’estero per 4 mila miliardi di dollari, quanto gli Stati Uniti e più della Cina. A rivelare questi dati è una recente ricerca del Fondo Monetario Internazionale.
Il mistero degli “investimenti fantasma”
Se facciamo due conti, gli investimenti esteri ammontano a 6 milioni e mezzo per abitante. Il dato è ancora di più se consideriamo che non si tratta di azioni o di quote in fondi d’investimento. Questo fiume di denaro è fatto di investimenti diretti esteri (foreign direct investment) ossia: aziende, capannoni macchinari. Peccato però che nella patria di Junker manca lo spazio e la manodopera. Per questo c’è il sospetto che si tratti “investimenti fantasma”. I Fdi sono oggi considerati come un parametro fondamentale per giudicare la prosperità economica di una nazione. Secondo questo schema dovremmo guardare con favore all’acquisizione di aziende italiane da parte di soggetti stranieri. Purtroppo, la storia degli ultimi 30 anni ci dimostrano il contrario.
Oggi, addirittura, anche i custodi del verbo liberista (i ricercatori del Fmi) ammettono che: “Il 40% degli investimenti dall’estero sono finzioni ad uso del fisco: fusioni mirate o shell companies, società create come “scatole vuote in cui parcheggiare profitti”. L’Fmi ha calcolato che quattro dollari su dieci sono il risultato della creazione di scatole vuote societarie, prive di qualsiasi attività economica e con il solo compito di far sparire profitti. Il grafico pubblicato da Il Sole 24 Ore ci mostra chiaramente questo trend.
Questo spiega perché in Lussemburgo (uno degli stati più piccoli dell’Unione Europea in termini sia di grandezza che di popolazione) operano 140 banche di 28 nazioni diverse con un patrimonio gestito di oltre 4mila miliardi di euro. Persino il nostro Presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha denunciato il fenomeno con la sua consueta veemenza. Secondo il nostro Capo di Stato: “Vanno fatti passi avanti per una fiscalità europea che elimini forme di distorsione concorrenziale e affronti il tema della tassazione delle grandi imprese multinazionali, per un sistema più equo e corretto”.
Non solo evasione fiscale
Il fenomeno appena descritto, però, non può essere derubricato a mera evasione o elusione fiscale. Vediamo perché. L’economia globale si basa su svariate forme di distorsione concorrenziale. Per varie ragioni. Andiamo con ordine. Questa disparità di trattamento non è solo frutto dei rapporti di forza. Ogni corporation mette in conto di pagare “penali” di questo tipo. Ad esempio Google ha chiuso due contenziosi con Parigi pagando 965 milioni di euro. In casi come questi le multe sono solo un gioco di prestigio per dimostrare l’imparzialità dell’erario.
Le vere disparità si celano nel transfer prices. Oggi, infatti, un’impresa può detenere un brevetto in un stato a bassa tassazione e caricare royalties esorbitanti del prodotto nelle nazioni a alta tassazione, in modo da massimizzare i profitti nei Paesi a bassa tassazione. Nessuno può chiedere ad una multinazionale di scegliere lo stato in cui si pagano meno tasse. Lo stesso discorso vale per ogni governo che può decidere quali aliquote applicherà alle imprese.
I lussemburghesi, infatti, affermano di avere il diritto di competere con le altre nazioni europee a livello fiscale, e che ogni stato è libero di fissare il livello di tassazione al suo interno a seconda delle priorità nazionali. I proventi delle multinazionali che passano per i paradisi fiscali non fanno altro che aumentare i monopoli comprimendo la libera concorrenza. Questo basterebbe a dimostrare come l’allocazione ottimale delle risorse non passa attraverso la libera circolazione delle merci. Cade, così uno dei cardini del liberismo.
Finanza vs economia reale
Tornando ai fatti, metà degli investimenti fantasma mondiali sono un’esclusiva del fisco compiacente del Lussemburgo e dell’Olanda. Questo ha sicuramente contribuito a riempire le tasche dei concittadini di Junker che vantano il più elevato PIL pro capite (circa 81.000 dollari nel 2008) dell’Unione Europea. Si tratta però solo di una ricchezza virtuale, frutto di una legislazione compiacente con i grandi gruppi finanziari. Oggi, infatti, è tra le principali piazze finanziarie mondiali per quanto attiene alla istituzione e gestione dei fondi di investimento, seconda solo agli Stati Uniti. Il settore primario e quello secondario sono ormai un lontano ricordo.
Questo piccolo stato incastonato tra il Belgio, la Germania e la Franca non è altro che hub per gli investitori extra Ue, soprattutto statunitensi. C’era proprio bisogno di un’altra City nel cuore dell’Europa?
Salvatore Recupero