Roma, 24 mar – Nell’agenda politica inciucista prossima ventura, il lavoro, o per meglio dire la mancanza di esso, avrà un ruolo fondamentale, seppur in senso abbastanza distorto. I due maggiori partiti politici infatti, forti di una mentalità decisamente anti-keynesiana, hanno deciso di occuparsi di altro, fingendo però di parlare di lavoro, con le proposte della flat tax e del reddito di cittadinanza. Chi vi vede delle sostanziali differenze è un illuso: si tratta solo di sedare con mancette il dissenso sociale, e la stampa di regime in effetti se ne è già accorta. Quale è infatti la proposta lanciata dal Corriere (ovvero dai poteri forti della morente imprenditoria nazionale) per aumentare l’occupazione? Ovviamente, quella di tagliare il cosiddetto “cuneo fiscale”, come ci vengono a ripetere praticamente in ogni legislatura da almeno 30 anni. Idea ovviamente autolesionista, perché il costo del lavoro è dato dal reddito dei lavoratori: salario (reddito diretto), contributi (reddito differito) ed imposte (reddito indiretto, ovvero erogato sotto forma di funzioni e servizi da parte dello Stato). Indi, la proposta dei padroncini del vapore può essere riformulata molto più semplicemente, e in modo decisamente più comprensibile per l’elettorato: bisogna tagliare i redditi del lavoro subordinato, e magari anche di quel che rimane del lavoro autonomo, visto lo stillicidio di partite IVA a cui abbiamo assistito dal 2011 in poi.
Non ci stancheremo mai di rammentare che l’unico modo serio per ridurre la disoccupazione involontaria è quello di pompare domanda nell’economia reale, ovvero di fare deficit pubblico in modo da aumentare le prospettive di fatturato delle imprese ed indurle ad assumere per espandersi. La riduzione della disoccupazione, in un circolo virtuoso, porterebbe anche alla crescita dei salari, la quale a sua volta può essere un ottimo incentivo per le imprese medesime all’investimento in ricerca e sviluppo, finalizzato proprio a contenere (in modo virtuoso) il costo del lavoro medesimo. Questo è tanto più vero se il deficit così realizzato venisse usato per opere infrastrutturali di lungo periodo, che aiutano l’economia reale medesima. Ciò detto: per un movimento che voglia realmente combattere il paradigma neoliberale eurocratico, e posto che il lavoro va innanzitutto creato (nei modi precedentemente descritti), non sarebbe il caso di puntare attraverso un radicale cambio di mentalità proprio rispetto al lavoro medesimo, da troppi secoli mero fattore della produzione? Chi ci segue sa a cosa ci riferiamo, e sa benissimo che il cambiamento radicale che proponiamo ha radici addirittura costituzionali, in particolare nell’articolo 46 che recita: “la Repubblica riconosce il diritto dei lavoratori a collaborare, nei modi e nei limiti stabiliti dalle leggi, alla gestione delle aziende”.
L’Italia necessita sicuramente di un piano di feroce reindustrializzazione keynesiana, di protezionismo, di una nuova Iri e associato ad essa, probabilmente, di una nuova visione del lavoro nel suo insieme. E’ un processo che richiederà tempo e inizialmente compreremo meno dall’estero e quindi i consumatori domestici potrebbero percepire un disagio; tuttavia, dovendosi rivolgere maggiormente al mercato interno, essi aumenteranno la domanda interna e le imprese domestiche torneranno ad assumere, aumentando quindi il reddito disponibile per le famiglie residenti, e via di seguito. Certamente, come abbiamo già detto, un paradigma partecipativo rispetto al rapporto di lavoro subordinato, si dovrebbe scontrare in maniera diretta con le forze sindacali, che nel conflitto distributivo hanno la loro unica ragione d’essere. Non è un caso che il decreto sulla socializzazione delle imprese produttive e commerciali della RSI sia stato abrogato il 26 Aprile 1945 dal CNL, come suo primo atto politico, con firma di Mario Berlinguer (padre del più noto Enrico).
Il classismo ha bisogno del capitalismo per poter giustificare la propria esistenza, la propria velleitaria demagogia ed il proprio furore ideologico irrazionale. Viceversa, il paradigma sociale che noi aspiriamo ad incarnare, parte dall’idea del lavoro come dovere sociale al benessere collettivo, e quindi alla tutela del medesimo come base della vita associata. Altro che mancette di Stato, altro che tagliare le tasse ai ricchi sperando che ci lascino mangiare le briciole che cadono dal loro desco. In una prospettiva realmente sovranista, identitaria e sociale, quello del lavoro è l’argomento fondamentale, in tutte le sue mille e complesse sfaccettature.
Matteo Rovatti
Lavoro, ecco perché dobbiamo ripartire dalla socializzazione
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3 comments
Tagliando il cuneo fiscale aumenta il reddito netto del lavoratore, più soldi in busta… quindi più consumi, più domanda, più occupazione
Inoltre rendi più conveniente, per il datore, assumere… quindi più assunzioni più reddito più consumi etc…
È una misura che non va snobbata
Sono d’ accordissimo sull’ operare in deficit perchè è cio’ che lo stato spende in piu’ rispetto a quanto preleva diventa il risparmio dei cittadini(quello che gli rimane in tasca).
D’accordo anche sulla socializzazione delle imprese, a cui gli stessi operai non fascisti diedero spesso un assenzo prima della “liberazione”.
Tuttavia senza la sovranità monetaria e cioè la produzione a costo zero del denaro da parte dello stato e quindi libera da usura privata , come fece nel 1935 Mussolini e che pago’ con le sanzioni nel 1936, con la guerra fatta apposta dagli usurai contro l’Italia e con la sua stessa vita,non vi puo’ essere alcuna ripresa della civiltà italiana.
[…] Author: Il Primato Nazionale […]