Roma, 20 giu –L’autonomia rischia di essere il vero inciampo di questo governo sul tema riformista. Perché la maggioranza di centrodestra, finora, ha mostrato un approccio molto insistente al rinnovamento istituzionale che indubbiamente lo rende, quanto meno agli occhi della cronaca presente, uno degli esecutivi più attivi che ci siano stati negli ultimi decenni. Il gabinetto guidato da Giorgia Meloni presenta ben altre criticità, sulla politica estera, sull’immigrazione, sulle contraddizioni tra propositi e gestioni dei rapporti con il mondo arabo nel contesto del Piano Mattei, sulla ormai strabordante politica liberale (seppure con qualche attenzione alle fasce deboli che però è poco distinguibile in termini quantitativi dalla classica “elemosina”) ma per quanto concerne la cultura riformista non ci sono molte riserve, al netto di differenze piuttosto nette tra cambiamenti netti e appena accennati. L’autonomia divenuta legge ieri sera, però, rappresenta un cambiamento culturalmente ostile all’unità nazionale. Soprattutto perché consente a chi l’ha sempre detestata e osteggiata (ovvero Pd, partiti satelliti, impero mediatico al loro servizio) di travestirsi perfino da patriota.
Autonomia, il pugno nell’occhio delle riforme del governo
L’esecutivo sta promuovendo due altre riforme importanti: la prima è quella della giustizia del ministro Carlo Nordio, la seconda è quella del premierato. C’è una differenza abissale tra le due, visto che se il guardasigilli dovesse farcela (senza deturpare o ridurre i testi ai minimi termini), il suo cambiamento istituzionale sarebbe enorme, tra leggi sulle intercettazioni rinnovate, reati di abusi d’ufficio aboliti, separazione delle carriere e sorteggio per le nomine al fine di ridurre il più possibile l’influenza delle correnti interne alla magistratura. Il premierato è – obiettivamente – al confronto ben poca cosa, sostanzialmente una “legge elettorale di approccio culturale” al tema – davvero serio – di un potere governativo maggiormente accentuato, allo scopo di migliorarne la stabilità e permettere a chiunque salga a Palazzo Chigi di esercitare le proprie funzioni pensando un po’ più all’Italia e meno a come tenere in piedi la baracca senza dover andare a elezioni anticipate o peggio ancora favorendo i soliti e fastidiosssimi “ribaltoni” o i gli esecutivi “tecnici”. Poiché i poteri del premier sostanzialmente non cambiano, ma muta la sua legittimazione elettorale, si può agilmente definire una riforma “leggera”. Che però resta utilissima a smuovere le acque nell’ambito totalmente immobile di una “verticalità” del potere in Italia inesistente, ma necessaria al fine di sviluppare una politica più propositiva nei decenni a venire.
Ebbene, nel contesto riformista in cui questo governo ha indubbiamente dimostrato una propensione da sostenere e supportare, l’autonomia suscita un effetto enormemente sgradevole. Come abbiamo avuto già modo di sostenere su queste pagine, il cambiamento in atto rappresenta una risposta sbagliata a una domanda sicuramente legittima, quella di chi vuole una Nazione in cui le differenze in termini di efficienza e ci sfruttamento delle risorse si annullino il più possibile, tra il sempre virtuoso Nord e il complicato e controverso Sud. Da questo punto di vista, l’autonomia potrebbe rappresentare addirittura un peggioramento della già pessima riforma del Titolo V della Costituzione del 2001, quando le competenze tra Stato e Regioni vennero pasticciate in modo drammatico. Questo perché da essa scaturirebbe perfino l’abolizione di un altro principio fondativo di qualsiasi Nazione, ovvero la solidarietà interna. Il tutto mentre, a sinistra, giocano pure a fare i patrioti.
E la sinistra sventola il tricolore
Sembra una barzelletta, ma coloro che hanno svenduto l’apparato industriale italiano, che hanno consegnato il Paese alle grinfie di Bruxelles, coloro che hanno appoggiato i golpe del 1992 e del 2011 (l’uno giudiziario, l’altro europeista), coloro che hanno promosso non solo l’immigrazione di massa ma lo stesso immigrazionismo come cultura, coloro che hanno reso endemico un pensiero geneticamente ostile alla Nazione e a tutta la sua storia unitaria (dal Risorgimento fino al Fascismo, ma andando anche oltre, con personaggi successivi come Enrico Mattei e Bettino Craxi), ora sventolano il tricolore urlando all’unità nazionale.
Al Nazareno fanno perfino finta di usare la parola “Italia” (di recente divenuta una rarità perfino negli ambienti cosiddetti “sovranisti”), mentre la Lega esulta per una spacchettatura inutile e dannosa. Con il beneplacito di FdI, interessata a barattarla con il premierato. I dem italiani cantano addirittura l’inno di Mameli, che magari potrebbero accoppiare per l’ennesima volta a Bella Ciao. Il tutto mentre la Nazione continua a sprofondare, tra una destra parlamentare che non fa nulla per reagire e un mondo al di fuori del parlamento la cui debolezza culturale è evidente anche solo pensando agli approcci sui temi europei e, in generale, internazionali.
Stelio Fergola