Roma, 18 dic – Cadendo quest’anno il quarantesimo anniversario della morte di Enrico Berlinguer, ci aspettavamo le celebrazioni di rito della sinistra istituzionale, che infatti sono arrivate puntuali. Non poteva essere altrimenti. Conferenze, presentazioni di libri, spettacoli teatrali, addirittura l’installazione di speciali luminarie nella natia Sassari. Ma l’evento che ha avuto maggiore risonanza nazionale è stato sicuramente il film del regista Andrea Segre, “Berlinguer. La grande ambizione”, uscito nelle sale lo scorso 31 ottobre e già recensito dal Primato. Un film agiografico, che ribadisce una volta di più quella visione da santino religioso del politico sassarese, ripulito d’ufficio da ogni ombra e collocato per sempre nel pantheon della sinistra più o meno istituzionale.
Un predicatore bacchettone dal piglio sovietico
E non a caso viene facile il paragone religioso. Un po’ per l’arcinoto adagio che considera quella rossa come “un’altra Chiesa”, contrapposta a quella bianca dei partiti di ispirazione cattolica, e un po’ per quei tratti di Berlinguer che in molti hanno riconosciuto come “ascetici”. Quell’apparenza castigata, malinconica, da predicatore bacchettone: decisamente sovietico nel suo grigiore da funzionario di partito. Pareva triste anche quando rideva; non beveva, mangiava poco. Proprio il tipo umano del moralizzatore, di per sé noiosissimo, ma che si accendeva quando c’era da predicare alla folla dei fedeli, attingendo a tutto il prontuario dei sofismi e delle parole d’ordine care all’immaginario comunista. D’altronde Berlinguer era cresciuto politicamente nel Pci di Togliatti, dove, tra le altre cose, ai funzionari del partito era richiesta una sorta di confessione scritta da far pervenire all’Ufficio Quadri della Botteghe Oscure, e nella quale il militante doveva scrivere dettagliatamente della propria vita privata passata e presente; soprattutto vi doveva autodenunciare tutti i “peccati” commessi nei confronti dell’idea comunista, del partito e dei compagni.1
In aggiunta a quell’aria da predicatore, anche il modo in cui è morto e la tempistica, gli hanno assai giovato per poter diventare il santino laico di molta parte della sinistra. Infatti, oltre ad aver tirato le cuoia appena prima della svolta gorbacioviana e poi del crollo dell’Unione sovietica – con tutto quel che comporta in termini di crisi dell’immaginario sentimentale della base comunista – si può dire che Berlinguer sia morto “sul posto di lavoro”, mentre comiziava a Padova. Il che ha molto giovato alla costruzione agiografica di martire laico, da contrapporre ai cattolicissimi peccatori democristiani. Senza contare quell’aura di puro, cioè di non macchiato da cedimenti smobilitanti, che lo fa distinguere dai “traditori del popolo comunista” che gli sono succeduti alla guida del Pci.
La questione morale e la politica del doppio binario
La figura di moralizzatore è collegata alla pantomima della questione morale, affiorata già durante gli anni Settanta – soprattutto fra i critici da sinistra del compromesso storico – e poi messa sul tavolo all’inizio degli anni Ottanta da Berlinguer stesso, come ultima carta buona da giocarsi al tavolo della propaganda. Ma prima di spiegare brevemente il perché e il percome di quella pantomima bisogna ricordare quella che un giovanissimo Andreotti, appena finita la guerra, aveva chiamato “politica del doppio binario”, fatta dai comunisti italiani fin dal primo governo Bonomi del giugno 1944 e diventata parte integrante del loro DNA. Una politica di chi, poi, ha dovuto introiettare gli equilibri di Yalta e a causa di ciò ha sviluppato un atteggiamento che potremmo definire schizofrenico. Cosa che, se da un lato costringeva i quadri del partito alla spiacevolezza di dover spesso mentire a sé stessi prima che agli altri, dall’altro garantiva la comoda posizione nella quale poter assumere “contemporaneamente il duplice ruolo di governanti e di oppositori”2. Nei fatti di godere delle possibilità offerte dalla gestione amministrativa del potere, e allo stesso tempo di capitalizzare politicamente il dissenso delle masse facendo opposizione. Anche l’antiamericanismo dei comunisti italiani è sempre vissuto in questa duplice, fin troppo comoda, contraddizione nata con la Resistenza: da un lato la consapevolezza di dovere tutto alle armate angloamericane, dall’altro l’odio ideologico.
Al netto di questa politica “del doppio binario”, si inserisce la questione del compromesso storico. In ballo non c’era solo il coinvolgimento del Pci come attore di governo nella gestione della cosa pubblica – gestione a cui peraltro il Pci già partecipava di fatto, a livello di amministrazione periferica e di lottizzazione degli organigrammi degli enti pubblici – quanto proprio l’abbandono della posizione politicamente vantaggiosa del “doppio binario” e l’aperta trasformazione in senso socialdemocratico. Oltretutto col rischio concreto che i sovietici gli sobillassero delle scissioni interne con l’arma efficace del finanziamento occulto, come successe poi al partito comunista spagnolo e a quello greco (e come già era successo al Psi negli anni Sessanta). La marea montante dei risultati elettorali comunisti costringeva i partiti italiani a logiche compromissorie: soltanto a Moro e a pochi altri pareva davvero indispensabile tanare il Pci sulla logica del “doppio binario”, coinvolgendolo nell’area di governo3.
La foglia di fico dell’eurocomunismo
L’eurocomunismo, invece, fu la foglia di fico di tutti i partiti comunisti dell’Europa occidentale, ma soprattutto di quello italiano. È ormai nota la storia della pioggia diretta di milioni (di dollari, non di rubli) che dal tempo di Stalin fino all’inizio degli anni Ottanta sono pervenuti a corroborare le finanze sempre in rosso del Pci, direttamente dal Fondo di assistenza ai partiti fratelli4. Ma la vera miniera d’oro, però, erano i finanziamenti sovietici indiretti tramite le cosiddette sœurs du parti, ovvero le centinaia di società di import-export e cooperative rosse che venivano usate per il commercio da e per i paesi comunisti, e da cui erano ricavate le tangenti da destinare al Pci (e non solo). Tanto per fare un esempio: serviva importare carne da macello, rame e stagno? Guai a comprarle dal Cile di Pinochet o dall’Argentina dei Perón, altrimenti tutto il baraccone della sinistra ci avrebbe montato chissà quale chiassata; li si comprava perciò dal romeno Ceaușescu, che a sua volta li comprava proprio da Pinochet e dai Perón, ma rivendendole all’Italia al triplo del prezzo tramite le cooperative del Pci, che in cambio ne ricevevano la loro moralissima tangente da rigirare in qualche modo al partito5. E così via. Può strappare un sorriso amaro sapere che il relatore del Pci a favore della legge n. 195 del 1974 contro il finanziamento pubblico dei partiti, fosse proprio Cossutta, che nel tempo libero faceva il cassiere dei soldi sporchi6: a lui i soldi piaceva riceverli solo sottobanco.
Le tangenti percepite dal Pci, tuttavia, non provenivano solo da società di partito, o a capitale misto Pci-privati, ma anche da aziende private come la Fiat, che per fare affari con l’Est erano obbligate a pagare discrete somme (tipo per l’affare dello stabilimento automobilistico di Togliattigrad). Lo stesso valeva per un’azienda di Stato come l’Eni. A partire dagli anni Settanta, col clima da compromesso storico, da Botteghe Oscure avevano fatto sapere a chi di dovere di essersi stufati di essere gli unici a non beccare una lira di finanziamento illecito. Perciò all’Eni si erano mossi di conseguenza per accontentare anche loro, con triangolazioni di società e commerci vari con l’Est7. Con un legame di tal genere si capisce quanto Berlinguer temesse la rottura con l’Urss: da un lato sapeva di doversi smarcare da un alleato utile, che però di anno in anno diventava sempre più impresentabile, dall’altro temeva l’implosione del Pci. La morte di Aldo Moro e la battuta di arresto dei comunisti alle elezioni politiche del 1979 gli tolsero le castagne dal fuoco; tirò i remi in barca e si limitò a seguire la corrente.
L’inconfessata ambizione di Berlinguer e dei comunisti italiani
Rimasero lo stesso tutti i danni e le porcate che la presenza di un partito comunista così forte, aveva prodotto direttamente o indirettamente sulla società italiana. Il compromesso storico non ci fu al vertice dello Stato, ma nell’amministrazione periferica sì. Proprio nel corso degli anni Settanta, grazie all’istituzione delle regioni, a livello locale avvenne la spartizione consociativa. Ne beneficiarono tutti, ma i comunisti in particolar modo, perché mettendo in piedi un sistema di centri di spesa decentrati – e non avendo nemmeno il dovere, per legge, di indicare i mezzi per le coperture di quelle spese – il Pci si concesse il piacere di dilatare enormemente le spese dello Stato “riscuotendo il dividendo che ciò produce in termini di consenso popolare senza soffrire dell’impopolarità derivante dalla ricerca di maggiori entrate”8. E qui ritorna la storia del “doppio binario”. Senza contare i danni prodotti dalle leggi del 1975 sul punto unico di contingenza, legato alla scala mobile, e il successivo aggancio delle pensioni al costo della vita e alla dinamica contrattuale dei salari: una legge fatta apposta per compiacere il Pci e, a detta di Guido Carli, soprattutto “una macchina per produrre deficit, e dunque per scaricare sui figli i consumi dei padri”9. D’altronde la cultura marxista aveva scoperto di poter trovare una valida sponda nel solidarismo cattolico già negli anni Sessanta, con la cooptazione dei socialisti al governo; gli anni Settanta furono semplicemente lo svolgimento di premesse date.
Per concludere con la triste storia del moralizzatore Berlinguer, e con l’ipocrisia delle questioni morali, non c’è niente di meglio che citare quel che disse Mussolini il 3 gennaio 1925 dei piagnistei degli aventiniani: “Si inscena la questione morale, e noi conosciamo la triste storia delle questioni morali in Italia”. Del resto, tanto per ritornare al titolo del film di Segre, l’unica vera, inconfessata ambizione dei comunisti italiani è sempre stata una e una sola: chiagnere e fottere.
Matteo Faggi
1 R. Mieli, Deserto rosso. Un decennio da comunista, Il Mulino, Bologna, p. 46
2 G. Andreotti, Concerto a sei voci. Storia segreta di una crisi, Ed. della Bussola, Roma, 1945, p. 72
3 G. Carli, Cinquant’anni di vita italiana, Editori Laterza, Bari, 1993, p. 364
4 Si veda il documentatissimo V. Riva, Oro da Mosca. I finanziamenti sovietici al Pci dalla Rivoluzione d’ottobre al crollo dell’Urss, Mondadori, Milano, 1999
5 Rivelazioni del settimanale Osservatorio Politico di Mino Pecorelli, contenute nel n. 6 del 1978
6 V. Riva, op. cit., pp. 411-413
7 Ibidem, pp. 499-502
8 G. Carli, op. cit., p. 342
9 Ibidem, p. 340