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La Quinta Repubblica Francese ha fallito, ecco perché

by Enrico Colonna
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Roma, 6 lug – Già in seguito alla debacle del centro macroniano alle elezioni europee dello scorso 9 giugno si è parlato del fallimento dell’ideale della Quinta Repubblica Francese, ovvero di quell’assetto costituzionale semipresidenziale sorto nel 1958 (in piena Guerra d’Algeria) nel paese transalpino, per volontà dell’allora presidente del governo transitorio Charles De Gaulle. Ma quello che è più interessante notare è che questo fallimento non è ascrivibile solo ai recenti disastri elettorali del blocco macroniano o all’ascesa del Rassemblement National di Marine Le Pen e del suo delfino Jordan Bardella: la Quinta Repubblica era già morta da oltre un decennio e non ce ne eravamo accorti.

Cos’è la Quinta Repubblica Francese

Anzitutto è necessario aver ben chiaro di cosa stiamo parlando: cos’è, perché è nata e come funziona la Quinta Repubblica Francese. Riassumendo molto, possiamo dire che con Quinta Repubblica si intende l’ordinamento costituzionale vigente in Francia dal 1958. Ordinamenti di questo tipo si enumerano considerando come Prima Repubblica quella nata dalla destituzione del re durante la Rivoluzione, come Seconda quella nata nei moti del ’48 con la fine della Monarchia di Luglio, come Terza quella sorta dalla caduta di Napoleone III durante la Guerra franco-prussiana nel 1870, come Quarta quella nata all’indomani della Seconda Guerra Mondiale (non riconoscendo come legittima la Repubblica di Vichy) e infine come Quinta, ancora in vigore, quella nata dalla riforma costituzionale gaullista del 1958.

Causa di tale riforma fu principalmente l’esplosione della crisi algerina. Infatti, nonostante la Francia avesse già abbandonato molte delle sue colonie, manteneva ancora saldamente il controllo sull’Algeria, dove una considerevole popolazione europea si opponeva fermamente ad ogni forma di decolonizzazione.

Il generale Charles De Gaulle seppe approfittare di tale crisi per creare un nuovo sistema di governo in cui il Presidente della Repubblica avesse molti più poteri di quanti ne avesse in precedenza. La prima riforma gaullista venne sottoposta ad un referendum popolare che approvò le modifiche costituzionali con oltre il 79% dei voti. In seguito, un ulteriore modifica sulle modalità di elezione del presidente venne approvata nel 1962.

Con la nuova costituzione la Francia passò da un sistema parlamentare ad uno semipresidenziale, inizialmente con il presidente eletto da un collegio elettorale, poi, con la modifica del 1962, con il presidente eletto direttamente dai cittadini a suffragio universale.

Com’è ormai noto, data l’imponente risonanza mediatica che sta avendo questa intensa stagione elettorale transalpina, in Francia si vota due volte: per il presidente della repubblica (figura dotata di reale potere esecutivo, non solamente figura di garanzia) e per i 577 rappresentanti della camera bassa, l’Assemblea Nazionale. Per l’elezione di quest’ultima il sistema è simile a quello britannico: si vota nei singoli collegi e distretti e il candidato che ha la maggioranza assoluta (50% + 1) vince. Ciò però è abbastanza raro, basti pensare al fatto che al primo turno di queste elezioni legislative sono passati a maggioranza assoluta solo 78 deputati su 577. Per questo motivo, come alle presidenziali, molto spesso si va al ballottaggio, cui partecipano i candidati che hanno superato una certa soglia, in teoria fissa, ma in realtà mobile, perché varia a seconda dell’affluenza, fissata al 12,5% degli elettori iscritti (attenzione: NON dei voti realmente espressi). In questo caso, vista l’alta affluenza, ci sono più ballottaggi a tre che ballottaggi a due (rispettivamente 305 e 191, più 5 ballottaggi a quattro).

Essendo un sistema semipresidenziale, il presidente governa con reali poteri esecutivi che condivide con il primo ministro espresso dall’Assemblea Nazionale. Ne consegue che, per come era stata concepita la Quinta Repubblica, sarebbe una buona cosa per il presidente governare con un primo ministro del suo stesso partito. In caso contrario si parla di “coabitazione”, con un presidente che non fa parte della maggioranza che esprime il primo ministro. E questa sembra essere una delle possibilità che attendono l’inquilino dell’Eliseo al 7 luglio. Nulla di nuovo però, questo era già accaduto in precedenza: ad esempio negli anni ’80 con Mitterrand e Chirac, ma non era una situazione di aperto conflitto tra presidente e primo ministro, come quella che invece va delineandosi oggi. In passato il rapporto tra i due era diverso. Questo perché, quando il fedelissimo di De Gaulle Michel Debré teorizzò la struttura della Quinta Repubblica, ragionò sulla necessità di avere un governo centralizzato che conciliasse le due tradizioni politiche francesi: da un lato quella prima monarchica e in seguito bonapartista, con un presidente dotato di reale potere esecutivo, dall’altro quella giacobina e centralista basata sull’irradiamento del potere pubblico in tutta la nazione, concretizzato nell’elezione dell’Assemblea Nazionale.

Questo era l’ideale della Quinta Repubblica: un governo stabile e centralizzato che unisse in un unico corpus giuridico l’eredità delle due tradizioni politiche attorno a cui la Francia ha ruotato dalla Rivoluzione in poi.

Perché l’attuale Costituzione è morta ben prima di Macron

Ora, finché c’era De Gaulle (sembra infatti che la Quinta Repubblica fosse concepita come se De Gaulle durasse in eterno) questo poteva anche funzionare, con un presidente forte che si occupava della direzione strategica del paese e che lasciava al governo le questioni più di “ordinaria amministrazione”. Questo sistema sembrò funzionare anche con i successori, ad esempio Georges Pompidou (già primo ministro sotto De Gaulle) e François Mitterrand.

Ma le cose cambiarono presto, con l’arrivo all’Eliseo prima di Sarkozy (repubblicano) e poi di Hollande (socialista). Con loro due iniziò a venir meno quell’aura di inviolabilità del presidente due volte legittimato dal popolo, sia tramite l’elezione diretta sia tramite il primo ministro, espresso dall’Assemblea Nazionale eletta dai cittadini. La figura del presidente come garante dell’unità nazionale indipendentemente dalle diatribe politiche inizia a scemare sempre di più sino ad oggi, quando nella percezione dei cittadini Monsieur le President è solo un politico come un altro.

Quando Emmanuel Macron vinse per la prima volta contro Marine Le Pen dell’allora Front National (oggi Rassemblement National) nel 2017, effettivamente vinse di parecchio, con un buon risultato già al primo turno e con una percentuale bulgara al ballottaggio. Sia per il solito discorso del fronte comune contro la Le Pen, per cui anche l’elettore di sinistra vota “turandosi il naso” per il candidato avversario (o viceversa) per scongiurare la vittoria del Front National, sia perché aveva saputo presentarsi (come molti allora e non solo in Francia, va detto) agli elettori come il nuovo, come l’alternativa alla vecchia politica. E infatti a quelle elezioni presidenziali i due partiti storici, repubblicano e socialista, presero percentuali bassissime. Un successo che però diede alla testa al neoeletto presidente, che ha voluto sempre mantenere la fermezza sui suoi propositi anche a scapito degli alleati di governo, con l’unico risultato di cercare delle sponde, ora a sinistra (su diritti civili e ambiente) ora a destra (su immigrazione e lavoro), pur di mantenersi in piedi. Vien da sé però che, se un governo punta a sopravvivere politicamente barcamenandosi tra due poli, le uniche cose che ottiene è di perdere credibilità agli occhi degli elettori e soprattutto di far perdere le staffe alle due sponde a cui si appoggia.

E la sfiducia nei confronti dell’atteggiamento da “nuovo De Gaulle” di Emmanuel Macron si era già manifestata alle presidenziali del 2022: se al ballottaggio del 2017 Macron vinse con quasi il doppio dei voti della Le Pen (il 66% contro il 34%, grazie all’idea del “fronte comune” anti-lepenista), al ballottaggio del 2022 superò il 50% di appena otto punti, ottenendo un 58% scarso contro l’oltre 42% della Le Pen. Quella stessa Le Pen che al primo turno aveva preso poco più del 23%: appare evidente che quindi già allora l’idea del “fronte comune” andava assottigliandosi sempre di più.

La debacle delle ultime elezioni europee è stata forse solo il colpo di grazia per un Macron che, a forza di voler essere il presidente di tutti (un nuovo De Gaulle, per l’appunto) rischia di finire per non essere il presidente di nessuno, con ancora tre anni di mandato da scontare. Vista la situazione, la scelta di quest’ultimo verbo non è casuale, ma per sapere se è stata fatta la scelta lessicale corretta, non resta che attendere i risultati di domenica 7 luglio.

Enrico Colonna

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