Roma, 10 apr – Provate a immedesimarvi nella vita di un prigioniero di guerra italiano durante la Seconda Guerra Mondiale. La giornata è scandita dalla conta dei presenti, tenuta da burberi sottufficiali con la divisa cachi della British Army, dal rancio misero e da sogni di libertà appassiti dietro i recinti di filo spinato. Questa era la vita di Felice Benuzzi, Giovanni Barletto e Vincenzo Barsotti, ufficiali del Regio Esercito catturati in Etiopia e detenuti nel 354 POW (Prisoners Of War, N.d.A.) Camp in Kenya. I tre non erano dissimili dalle migliaia di altri prigionieri catturati nel corso delle vicende belliche dell’Africa Orientale Italiana, ma la Storia insegna che non serve nascere sotto gli auspici della grandezza per rendere il proprio nome immortale e consegnarlo ai posteri. Infatti, i tre daranno vita alla fuga più spettacolare e rocambolesca di sempre.
Il sogno della fuga
La vita al 354 era dura e noiosa e le giornate interminabili trascorrevano tutte uguali avendo per sfondo i 5100 mt di altitudine del Monte Kenya, i cui scorci facevano capolino dalle nuvole alte. Furono proprio questi scorci che diedero a Benuzzi e ai suoi compagni l’idea dell’evasione. I tre, appassionati di alpinismo, non volevano fuggire per conquistare un’insperata quanto improbabile libertà. Fuggiaschi, soli e dispersi nell’immensità del Kenya, ci sarebbe voluto poco perché fossero nuovamente catturati e riportati al campo di detenzione. L’evasione cui cominciavano a pensare era piuttosto una sfida di coraggio, un traguardo da conquistare con la fatica delle gambe e il fiato corto per la salita impervia: l’ascesa al Monte Kenya.
Una lunga preparazione
Le ascese alpinistiche non sono facili a quelle altitudini. Proviamo a immaginare per un istante cosa dovesse significare affrontarne una in un territorio ostile, senza i giusti mezzi e in condizioni fisiche provate da lunghi mesi di prigionia. I tre si prepararono come possibile: raccogliendo informazioni da libri, racconti locali, addirittura da scatolette di cibo in scatola dov’era raffigurato uno dei pendii della montagna. Raccolsero anche del materiale indispensabile per l’impresa, aiutati dai commilitoni, come corde, chiodi, strumenti di fortuna. E alla fine venne il giorno.
La conquista del Monte Kenya
Il 24 gennaio del 1943 i tre fuggirono dal campo, lasciando una lettera per l’ufficiale responsabile nella quale comunicarono che sarebbero tornati entro 15 giorni e che non avevano intenzione di fuggire. Per evitare di venire catturati prima di compiere l’impresa lasciarono celata la propria destinazione. Giunti verso gli inizi di febbraio a 4200 mt, Barsotti manifestò un problema al cuore e gli venne imposto di non proseguire. Benuzzi e Barletto dopo diversi tentativi e ricognizioni giunsero infine sulla vetta del Picco Lenana il 6 Febbraio. Issarono sulla cima il Tricolore italiano, donato loro da un prigioniero che era riuscito a nasconderlo durante le perquisizioni al campo. A memoria dell’impresa lasciarono anche una bottiglia con un messaggio scritto, che venne rinvenuto di li a poco da alcuni alpinisti britannici.
Un rientro trionfale
I tre, espressa la volontà di rientrare al campo di detenzione con le proprie forze, riuscirono a evitare la sorveglianza raggiungendo infine gli orti attorno al campo dove vennero festeggiati dai propri commilitoni reclusi. Rivestiti e ripuliti, il 10 Febbraio si presentarono alle autorità britanniche del campo che li condannarono alla canonica pena di 28 giorni di arresto per evasione. Dopo solo una settimana il comandante del campo, nel frattempo venuto a conoscenza della loro impresa, diede disposizione che fossero rilasciati. I soldati britannici spiegarono ai tre che “aveva apprezzato la loro impresa sportiva”. L’impresa di Benuzzi, Barletto e Barsotti venne raccontata in un libro autobiografico dallo stesso Benuzzi, intitolato “Fuga sul Kenya”. Come dicevamo: la Storia insegna che non serve nascere sotto gli auspici della grandezza per rendere il proprio nome immortale, e questi tre grandiosi nostri connazionali l’hanno ampiamente dimostrato.
Marco Volpetti