Roma, 7 nov – «Fuga in Egitto» è il titolo di un dipinto di Tiziano Vecellio, realizzato nel 1508 e oggi custodito presso il Museo Statale Ermitage di San Pietroburgo. L’opera d’arte, un olio su tela dalle dimensioni ragguardevoli di 206 x 336 cm., raffigura uno degli episodi più noti del Nuovo Testamento, la fuga di Giuseppe, Maria e del bambino Gesù nel territorio dell’Egitto, per fuggire all’infanticida Erode, il re della Giudea che aveva ordinato di uccidere tutti i bambini maschi di età inferiore ai due anni, presenti a Betlemme e dintorni, per impedire la sopravvivenza di quel bambino che, profezie alla mano, in futuro l’avrebbe spodestato.
Fuga in Egitto e l’arcadia veneziana
Il quadro raffigura la Sacra Famiglia in movimento verso un Egitto che di mediorientale reca a malapena il nome, trasfigurato dal «nuovo Giorgione» in un’area florida di vegetazione, boscosa e ricca di tutti quegli animali selvatici che popolavano (e talora popola) le aree boschive dell’Europa centrosettentrionale, quali il cervo e la volpe. Esso simboleggia le aspirazioni della cultura europea della prima metà del secolo XVI, come attestato dall’intensissimo vissuto artistico del pittore veneziano, nato verso il 1489 e morto di peste nel 1576. Quale tipo di «Arcadia» intendeva diffondere chi dava colori, forme e geometrie pittoriche ad una sensibilità che si esprimeva nell’«Arcadia» del poeta Jacopo Sannazzaro, pubblicati nel 1502 o negli «Asolani» del letterato Pietro Bembo, usciti nel 1505? Verso quale Egitto fuggivano il canuto Giuseppe, instancabile camminatore e una provata Maria, che a dorso di un asino a malapena riusciva ad abbracciare, con dolcezza materna, il piccolo Gesù? Nello scenario di fuga verso altre contrade, proprio di questi ultimi, tragici mesi di esodi senza fine, cade a fagiolo l’uscita dell’agile volumetto di Monica Ferrando, dal titolo «Arcadia Sacra» (Il Mulino, Bologna 2024, pp. 133, Euro 12). In appena tre capitoli, l’autrice ripercorre la storia culturale e politica dell’Arcadia, nata a Napoli dal genio creativo del Sannazzaro e approdata nella Venezia dello stampatore Aldo Manuzio. E proprio le ottanta ristampe del poema pastorale nella città lagunare, indurranno il pittore a identificare, nella «inclita et famosissima Cita de Venezia», quel nuovo Egitto, al quale approdare dopo essersi congedati dalle turbolenze che agitavano il Regno di Napoli. Siamo dunque di fronte ad una lettura del dipinto in chiave neoregionalista? Di nostalgie per la Repubblica «Serenissima», quell’istituzione che aveva intriso il vissuto quotidiano di Tiziano Vecellio, non si avverte neanche il minimo sentore. La Venezia alla quale allude la «Fuga in Egitto», suggerisce la Ferrando, collima con uno spazio naturale e mentale del tutto nuovo rispetto ad altre aree geografiche.
Incongruenze della critica
La storia dell’insediamento urbano più ‘artificiale’ del mondo antico ha fatto il resto, creando una sorta di Arcadia ‘familiare’, nella quale la bellezza della natura faceva da musa ispiratrice per la pittura. Le forzature con il presente vanno in ben altra direzione che non quella di una riscoperta identitaria dei valori maturati, in 1100 anni di storia, all’ombra del Leone di San Marco. Il pamphlet della Ferrando non segue di certo la raffinata elegia del ‘Cuor di Veneto’, alla quale ci avevano abituati gli articoli del giornalista Stefano Lorenzetto. Anche in rapporto alla descrizione della figura di Pan, la divinità per eccellenza presente in ogni Arcadia che si rispetti, la fuga in avanti dell’autrice sembra ‘monocolore’ e si ferma ai quaderni del grecista Carlo Diano tra il 1918 e il 1925, tacendo del tutto sulla figura di Pan come baluardo alla tecnolatria, studiata ed esemplarmente interpretata da Friedrich Georg Jünger appena vent’anni dopo. Tuttavia, la pubblicazione di questo studio nella collana «Icone. Pensare per immagini», che presenta brevi ed incisive riflessioni di personalità dalla chiara fama magistrale, quali Riccardo Muti e Massimo Cacciari, non deve esimere il lettore dal dismettere il suo acume critico. Più di una riserva suscita la prosa impiegata dall’autrice del saggio, che offre al lettore una scrittura a tratti criptica, a tratti sulfurea. «Giungendo ad assegnare al demonio i tratti del dio autoctono Pan, si compirà una vera e propria opera di demonizzazione legittimandone la successiva banalizzazione al fine di nasconderne l’inaggirabile serietà». Attribuire serietà, e quindi la conseguente affidabilità (dizionario della lingua italiana docet) al simbolo del male per antonomasia? Se non fossimo ormai adusi a ridere per simili boutade, diffuse a mani basse almeno dai tempi dei «Litfiba», ci voteremmo alla folle insensatezza del relativismo etico. Con buona pace dell’arcadico equilibrio, tutto cristiano, tra l’anima, lo spirito e il corpo.
Marco Leonardi