Roma, 19 mar – Sebbene Marzo sia il mese di Marte, dal 19 al 23 si festeggiano i “Quinquatrus” dedicati a Minerva, giorni ancora di lustrazione per armi e strumenti. Ci si chiede come mai una divinità dai connotati femminili e patrona di attività artigianali e intellettuali, eppure “scuotitrice di lancia”, compaia in questo mese: è utile ricordare che le divinità sono forze primordiali aventi specifici ambiti di competenza e alle quali, uomini particolarmente sensibili e capaci, come appunto erano i Romani, possono attribuire un’individualità rappresentabile da un’immagine, un oggetto-simbolo, un nome che ne esprima il potere numinoso. Diciamo “è possibile” e non “era possibile” poiché riteniamo tale atto ancora realizzabile. Risalendo al Nome–Numen, Minerva deriva da Menrua, da mens relativa a mente, corso dell’azione in cui intervengono le facoltà intellettive. Mens, mente, legato a mensis, il mese, e quindi alla luna, che non dà luce propria, ma riflessa[1], la riflessione. Minerva acquisì importanza a Roma già sotto i Re tanto da costituire, con Giove e Giunone, la triade capitolina che sostituì quella arcaica di Giove Marte e Quirino mediante l’avvicendamento nell’ambito guerresco tra Marte e Minerva, tra il dio della guerra e la dea della “sapienza armata”.
Così la descrive il Graves: «Non gode delle sanguinose battaglie, come invece accade ad Ares ma preferisce appianare le dispute e far rispettare la legge con mezzi pacifici. (…) Ma se si trova in tempo di guerra non perde mai una battaglia, sia pure contro lo stesso Ares, perché più esperta di lui nell’arte strategica; i capitani accorti si rivolgono sempre a lei per avere consiglio[2]». Alcune statue equestri riportano la civetta (sacra a Minerva) sormontare la testa del cavallo (sacro a Marte). Ella è la divinità della concentrazione mantenuta a cui generazioni di studiosi e studenti, maestri, professori e artigiani hanno chiesto supporto e protezione per il loro sforzo intellettuale contro ogni perdita di concentrazione.
La civetta le è sacra, predatore capace di vedere nella notte ed il cui volo è silenzioso e leggero, lo sguardo attento e acuto. Occhi e piume attorno han portato ad associare la civetta alla lettera greca Φ (phi) –come φιλοσοφία –filosofia, attitudine e amore per la sapienza. Come altri strigiformi (strix.. le streghe) la civetta si nutre di piccole prede tra uccelli, insetti e vertebrati quali i topi -animali ributtanti che scappano infilandosi nelle cavità per poter sfuggire all’implacabile attacco di questi inesorabili predatori, che fuggono come ladri all’arrivo del padrone di casa, animali che in via del tutto naturale riconoscono l’inesorabilità dell’intervento dall’alto rispetto la loro infima condizione. Sembra poesia di guerra tratta dalla natura a cui neanche l’uomo può però sottrarsi: è la fuga (metaforica e non) del proprio io vile davanti lo sguardo severo di Sé stesso, è la scelta della via comoda e del facile godere al luogo della fatica e della prova, è il bivio di Ercole tra la giovane donna che gli indica una strada facile e piacevole rispetto la vecchietta che gli indica una strada in salita. Ma per tutto questo serve un occhio che veda nel buio della propria interiorità, del piccolo sopravvivere e del “chi te lo fa fare”, uno sguardo vigile e severo del proprio Sovrano Interiore che osserva il nostro instabile e smidollato Io. La caccia della Civetta-Minerva è una caccia notturna, volta a scovare prede che si muovono con il favore della notte proprio dove i nostri vizi e le nostre bassezze si insinuano scaltre e non viste o, peggio ancora, lasciate straripare con l’aggravante dell’autogiustificazione e dell’autoassoluzione. È poesia di guerra, sapienza in armi.
Vi è un’altra analisi su Menerva-mens: la mente viene associata all’argento e alla luna in quanto riflettente altra luce, un riflesso bianco latte che, unitamente al suo ciclo di circa 28 giorni, può ben simboleggiare la femminilità. Di fatto abbiamo un punto radiante Sole ʘ, luminoso e calorifero, centro del cosmo, signore e motore immobile di contro a molteplici atti possibili, esterni e variabili sebbene dal primo dipendenti; il problema è che le forze primigenie non possono manifestarsi immediatamente all’uomo senza il rischio di danni permanenti all’unita personale. A tal proposito non va dimenticato che la vista della Diana nuda condusse Atteone a morte[3]. C’è bisogno dunque di un “trasformatore” che porti la tensione della forza pura ad un voltaggio “umano”, una sorta di paio di “occhiali da sole” come strumento che attenui l’energia luminosa poiché quella diretta non è sopportabile.
Questo riflettersi del macrocosmo nel microcosmo (e viceversa) può avvenire attraverso lo “specchio” della mente che riflette quanto proviene dal centro radiante per restituirlo alla frequenza visibile e udibile, del comprensibile e del comunicabile nel linguaggio degli uomini (ferma restando l’incomunicabilità di alcune esperienze di potere). Questo carattere puramente riflessivo e passivo della mente è sperimentabile osservandola procedere furiosa di associazione in associazione quando privata di un centro, di concentrazione, cum-centrum, di stabilità con il centro, disordinatamente.
E i lavori artigianali? Stando la mente come mezzo tra “centro” e “periferia”, si guardi il lavoro di un artista, di un arti-fex, il facitore di arte cioè di quella meravigliosa, inspiegabile quanto occulta facoltà di produrre dal niente, di dare forma ad una cosa informe: è il caso di uno scultore davanti un blocco di marmo; di un disegnatore o di un tatuatore che prova e riprova il disegno perfetto finché non è “pienamente soddisfatto” sentendolo pienamente suo come parte di sé, di un musicista che “cerca” il riff giusto, è il mettere in parole i moti interiori altrimenti inafferrabili propri al poeta o ancora è il tradurre la geometria e i ritmi del cosmo costruendo in architettura, è l’organizzare una società propria al Politico. È la realizzazione dopo tanto cercare. Ogni arte e mestiere aveva una propria corporazione la quale, lungi dall’essere una mera lobby di potere, era il centro sapienziale attraverso cui tramandare il sapere acquisito nelle generazioni nonché quello di custodire le tecniche per mettere in contatto quel “centro irradiante” occulto con le corde umane a partire dall’esperienza trascendentale che vedesse nell’invisibile, da mettere poi a terra traducendola mediante la mente ed infine per attualizzarla.
Il canto della civetta è quindi la caccia dell’animale interiore che ha aspettato paziente per chissà quanto tempo la sua “preda interiore”, che ha predisposto tatticamente e sapientemente ogni accorgimento teso a cogliere l’attimo, è una tensione che va mantenuta elevata, è una attenzione permanente fino all’istante in cui si innesca l’azione. È il lavoro paziente della preparazione fino all’istante prima della soddisfazione per l’azione compiuta. È la concentrazione mantenuta in attesa che l’evento che si sta aspettando si manifesti e, solo a quel punto, realizzare il momento e dirsi “ECCO”. Fino a questo momento Minerva è rimasta accovacciata sulla tua testa, girandoti per poterla vedere, essa ha già spiccato il volo.
Marzio Boni
[1] Introduzione alla Magia, gruppo di Ur.
[2] Graves R., I miti greci, trad. it., Longanesi, Milano, 1999
[3] Pausania, IX 2 3; Igino, Fabula 181