Roma, 14 apr – Il 13 aprile in Polonia si commemora la Giornata della memoria per le vittime del massacro di Katyń, ma la strada per affermare la memoria e scoprire tutta la verità è stata molto lunga. E non è ancora terminata.
La menzogna fondamentale
Alla fine della Seconda guerra mondiale, la Polonia si trovò nel blocco orientale, sotto il dominio dell’Unione Sovietica. Ufficialmente il paese fu “liberato” dall’Armata Rossa, ma la popolazione polacca ricordava fin troppo bene la feroce guerra contro i bolscevichi del 1920, la vile aggressione del 1939 e le stragi e violenze compiute dai russi durante la guerra. Nessuno aveva dubbi sul fatto che non si trattasse di una vera liberazione, ma di una nuova occupazione. In tale contesto, il compito principale del governo comunista fu quello di costruire il mito dell’amicizia polacco-sovietica; un passaggio fondamentale per raggiungere questo obiettivo fu la cancellazione della memoria del massacro sovietico di Katyń. Nei primi anni dopo la guerra, il governo polacco adottò la versione presentata dalla commissione di Nikolaj Burdenko, secondo cui il massacro era stato commesso dai tedeschi. Chiunque osasse esprimere pubblicamente l’opinione contraria, ormai diffusa tra la popolazione polacca, rischiava l’arresto e la condanna, in base al decreto del 1944 contro “criminali fascisti-hitleriani e traditori della nazione“, a pene severe come la reclusione per almeno tre anni, l’ergastolo o addirittura la pena di morte. Perfino negli annunci di ricerca dei propri familiari dispersi durante la guerra, non era consentito menzionare che fossero stati deportati in Unione Sovietica e qualsiasi riferimento a questo fatto veniva rigorosamente censurato. Nel 1952 il Ministero della Sicurezza Pubblica emise specifiche istruzioni riguardo alla “diffusione provocatoria di menzogne e distribuzione di documenti falsificati dall’occupante tedesco“. Secondo queste istruzioni, dovevano essere perseguiti tutti coloro che in qualunque modo si impegnassero a diffondere la verità su Katyń. Evidentemente, il governo sentiva fortemente la necessità di tali misure, dato che nel corso degli anni si ripetevano casi di distribuzione di volantini anticomunisti e apparivano scritte murali come “Morte ai rossi per Katyń“.
Il silenzio totale
Dopo la morte di Stalin si poteva sperare in una certa apertura sull’argomento, se non nella piena trasparenza. Quelle speranze furono però subito sepolte dal segretario del Partito Comunista Władysław Gomułka, che già nell’ottobre del 1956 dichiarò che la questione era stata analizzata dalla commissione russa, da quella americana e dal tribunale di Norimberga e che i risultati erano stati contraddittori, pertanto “né il partito né il governo possono prendere posizione“. Il messaggio era chiaro: una spiegazione non c’era e non ci sarebbe stata, quindi l’argomento doveva essere omesso. E infatti fu proprio così: per molti anni non si trovò nemmeno un piccolo accenno al massacro di Katyń in nessun film o libro, compresa l’enciclopedia pubblicata nel 1984 dove dopo la voce “Katylina” seguiva “Katz”. Se da qualche parte comparivano riferimenti a Katyń, erano sempre accompagnati dal suggerimento che il crimine fosse stato commesso dai tedeschi. Nonostante i tentativi del governo, la gente non dimenticò. Nel 1959, nel cimitero militare di Powązki a Varsavia, venne posta una tomba simbolica dedicata agli ufficiali uccisi a Katyń, subito rimossa dai servizi di sicurezza, ma il luogo divenne comunque uno spazio di memoria clandestina per molti anni. L’opposizione anticomunista continuava a distribuire volantini e opuscoli dedicati al massacro, e durante incontri pubblici con esponenti del partito la gente poneva domande scomode sull’argomento. Nel 1968, durante le manifestazioni antigovernative, apparvero scritte murali come “Ricordatevi di Katyń”. Nel 1979, tre attivisti dell’opposizione fondarono l’Istituto di Katyń clandestino, che si occupava della raccolta di testimonianze, dei nomi degli ufficiali uccisi e di documenti, oltre che della diffusione clandestina delle pubblicazioni stampate dalle comunità polacche in Europa occidentale. Un episodio particolarmente tragico fu il suicidio pubblico di Walenty Badylak, ex soldato della resistenza polacca durante la Seconda guerra mondiale, che il 21 marzo 1980 a Cracovia si diede fuoco per protestare contro la menzogna di Katyń. Purtroppo anche la sua vicenda venne censurata dalle autorità, e solo i giornali locali menzionarono brevemente la morte di “un malato mentale“. Purtroppo, la situazione internazionale non favoriva il chiarimento della questione, poiché i paesi occidentali non esercitavano pressioni sull’Unione Sovietica in merito. Durante tutta la guerra fredda, la posizione dei governi occidentali sul massacro di Katyń rimase ambigua e prudente per evitare tensioni diplomatiche con l’Unione Sovietica. Sebbene gli Stati Uniti e la Gran Bretagna fossero consapevoli della responsabilità sovietica già dagli anni quaranta, preferirono non condannare ufficialmente Mosca, lasciando la questione nell’ombra per ragioni politiche. Questa ambiguità influenzò per decenni la percezione internazionale del massacro, ostacolando il riconoscimento della verità e la commemorazione delle vittime su scala globale.
Carnevale di Solidarność e la croce di Powązki
La situazione cambiò rapidamente durante il cosiddetto “carnevale di Solidarność” – il periodo compreso tra l’agosto del 1980 e il dicembre del 1981, quando, in seguito agli accordi con l’opposizione, il governo comunista accettò di registrare il sindacato Solidarność e rimuovere alcune restrizioni della vita pubblica. In quel periodo furono organizzate centinaia di iniziative per commemorare il massacro di Katyń, tra cui conferenze, presentazioni e pubblicazioni di libri. Nell’aprile del 1981, presso il cimitero di Powązki, fu organizzata dall’opposizione anticomunista una grande commemorazione. Il 31 luglio dello stesso anno, nello stesso cimitero, venne solennemente eretta una croce di pietra in memoria degli ufficiali uccisi, con iscrizioni che indicavano chiaramente la responsabilità dell’URSS. La notte successiva, però, la croce venne rimossa dal Servizio di sicurezza. Il comitato promotore della croce non si arrese: raccolse nuovi fondi ed eresse una seconda croce nel dicembre 1981, che però scomparve nuovamente dopo pochi giorni. Ulteriori possibilità di commemorazione furono interrotte quando, il 13 dicembre 1981, il generale Wojciech Jaruzelski – preoccupato per la possibile caduta del comunismo – impose la legge marziale e intensificò la repressione contro l’opposizione. Lo stesso generale difese per tutta la vita la menzogna secondo cui la responsabilità per il massacro di Katyń fosse “hitleriana”. Nel 1981, il Consiglio politico principale dell’esercito polacco, sottoposto a Jaruzelski, preparò addirittura un opuscolo educativo destinato ai soldati, nel quale veniva presentata la versione della commissione Burdenko. Era una pubblicazione palesemente assurda, che può testimoniare soltanto lo stato mentale di Jaruzelski, poiché a quel punto nemmeno i più fedeli funzionari del partito credevano più in tale versione.
Verso la verità
La legge marziale è stata ufficialmente revocata nel luglio del 1983 e, successivamente, le informazioni sul massacro di Katyń hanno cominciato a essere incluse anche nei manuali scolastici, seppure senza indicare esplicitamente il colpevole. Le prime indagini internazionali sono iniziate alla fine degli anni Ottanta, e l’Unione Sovietica ha ammesso infine che i responsabili del massacro erano i sovietici e non i tedeschi. Tuttavia, il processo russo, conclusosi nel 2004, non ha identificato i colpevoli, lasciando ancora oggi molte domande senza risposta. Nel frattempo, in Polonia, dal 2007 si commemora il 13 aprile – giorno in cui nel 1943 i tedeschi scoprirono le fosse comuni – come Giornata della memoria per le vittime del massacro di Katyń. Purtroppo, la storia ha aggiunto un altro capitolo tragico alla vicenda di Katyń, quando il 10 aprile 2010 la delegazione polacca diretta in Russia per commemorare l’anniversario del massacro ha perso la vita in un disastro aereo presso Smolensk. Tra le vittime vi erano il presidente della Polonia Lech Kaczyński e altre 95 persone.
Sylwia Mazurek