Roma, 7 ott – Da metà agosto, quando il segretario di Forza Italia e Ministro degli Affari Esteri Antonio Tajani ha lanciato la proposta dello Ius Scholae, un acceso dibattito si è alzato da più fronti spaccando in due non soltanto il governo o la classe politica, ma l’intera popolazione, tra chi auspica un percorso semplificato e più rapido di ottenimento della cittadinanza da parte degli stranieri e chi ritiene già corretto il modello attuale di concessione della medesima; ma quali sono nel concreto le differenze tra i tre “macromodelli” (ius sanguinis, scholae e soli), in che cosa consistono e perché determinate forze politiche sono così interessate alla questione?
Cittadinanza all’ordine del giorno
Ebbene, in Italia vige un sistema di ottenimento della cittadinanza articolato, basato per lo più sul cosiddetto Ius Sanguinis, ossia “diritto del sangue”, e codificato per la gran parte dalla Legge 91/1992, la quale tra l’altro prevede la possibilità di richiedere la cittadinanza entro un anno dal compimento del diciottesimo anno di età qualora si sia nati in territorio nazionale da genitori stranieri e vi si sia risieduto ininterrottamente fino al compimento della maggiore età, oppure dopo un periodo di regolare residenza in Italia di almeno dieci anni (quattro se cittadini UE o cinque se rifugiati), qualora si dimostri di avere redditi sufficienti, di non avere condanne penali e in assenza di impedimenti per la sicurezza pubblica. Ciò che risulta dal testo, nel suo complesso, è la ragionevolezza della norma e dei suoi requisiti, come ad esempio la conoscenza della lingua italiana ad un livello B1 (Renzi, ai tempi del “shish”, affermava sul curriculum di essere C2 in inglese), e ciò risulterebbe anche dal gran numero di cittadinanze che vengono concesse ogni anno dal nostro paese: 213mila nel 2022, più di un quinto di tutte le cittadinanze concesse nell’intera Unione Europea, numero record e superiore a quello di ogni altro stato membro.
Lo storico tentativo della sinistra
Da ormai dieci anni nel nostro paese viene proposta, soprattutto dalla sinistra ma con diversi ammiccamenti da parte di politici di centro e centro-destra, il sistema diametralmente opposto a quello in vigore in Italia (e nella gran parte dei paesi del mondo) ossia lo Ius soli: questo modello di concessione della cittadinanza, adottato quasi esclusivamente nel continente americano, sia nelle sue versioni più attenuate che in quelle più rigide prevede sostanzialmente la concessione della cittadinanza a chiunque nasca sul territorio nazionale. Questa idea di cittadinanza è stata, nonostante le diverse proposte di legge, più volte e con fermezza bocciata, ed è proprio per questo che negli ultimi anni i vari campi progressisti hanno pensato ad un’alternativa via di mezzo da usare, forse, come cavallo di Troia, per portare in futuro allo Ius Soli: questa via di mezzo è il c.d. Ius Scholae (o come andava di moda qualche anno fa, Ius Culturae). L’ultima versione di questa proposta prevede l’ottenimento della cittadinanza da parte di bambini stranieri nati o arrivati in Italia prima dei 12 anni che abbiano frequentato regolarmente almeno 5 anni di studio nel nostro Paese, in uno o più cicli scolastici.
Riflessioni doverose
Ebbene, le nostre riflessioni sono molteplici e viene innanzitutto spontaneo chiedersi se questi ragazzi a cui si vorrebbe regalare la cittadinanza italiana si sentano veramente italiani: in un sistema scolastico vecchio, inefficiente, trasandato, all’interno del quale vengono formati ragazzi spesso senza valori, senza spirito di sacrificio o capacità di analisi critica rispetto a ciò che li circonda, come possiamo pensare che in appena cinque anni di studi un ragazzo, che proviene da un altro paese e respira quotidianamente in famiglia una cultura dove magari non vi è rispetto per la donna, per i diritti umani o per le altre confessioni religiose, venga adeguatamente educato e soprattutto cresca sentendosi italiano, sentendosi non più attaccato alla nazione d’origine dei genitori bensì alla Nazione in cui sta crescendo? Inoltre in Italia sono numerosissime le norme, sia a livello legislativo che a livello di trattati internazionali, che tutelano i diritti dei minori e non, siano essi stranieri o cittadini: se l’art. 3 della Costituzione afferma “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di […] razza, di lingua, di religione […].”, l’Italia riconosce ed aderisce inoltre alla Convenzione Europea sui Diritti dell’Uomo del 1950, alla Convenzione di New York sui diritti dell’infanzia del 1989 oltre che ad altri numerosissimi trattati, convenzioni ed accordi, e ne dà attuazione tramite una serie infinita di leggi e regolamenti che tutelano in tutto e per tutto gli stranieri (soprattutto i minori) al pari dei cittadini italiani, con una sola grande differenza, forse quella che più interessa alla classe politica nostrana: il diritto di voto.
La cittadinanza elettorale
In una Nazione dove gli studenti stranieri sono quasi un milione, dove la popolazione cittadina è sempre più vecchia ed il tasso di natalità è sempre più basso, il dubbio che sorge spontaneo è che una (non troppo) determinata ala politica sia alla ricerca di un elettorato per il futuro: la sensazione è infatti quella che alcuni partiti, ormai incapaci di rivolgersi all’elettorato giovane ed italiano, cerchino l’ottenimento facile di voti e consensi tra gli stranieri, avanzando proposte per dar loro il prima e più velocemente possibile l’unico vero diritto esclusivo della cittadinanza, forse anche incoraggiati dal risultato storico della coalizione di sinistra NFP in Francia, la quale è stata in grado di quasi monopolizzare i voti degli stranieri diventando così il maggior gruppo parlamentare. Viene, infine, da chiedersi una sola cosa: ha senso sgretolare completamente l’identità di un popolo a solo scopo elettorale?
Edoardo Padovani