Roma, 29 gen – La recente sentenza della Consulta in merito alla legge elettorale è solo l’ultimo capitolo di una infinita sequenza di ingerenze pesantissime della magistratura nella politica, che ne esce sempre e comunque male. Intendiamoci: la classe politica nazionale è una vergogna e si merita ampiamente di essere scavalcata, fra traditori della Patria, finte opposizioni allucinate e vere opposizioni inciuciste. Ma lo strapotere dei giudici in Italia ed in Occidente non è una questione meramente locale né può essere liquidata con la semplicistica constatazione della crisi dei sistemi di delega che apre la strada ad ogni contro-potere voglia riempire questo vuoto.
In realtà il dominio dei giudici sui politici è un meccanismo intrinseco all’ideologia liberale che dal ’45 ad oggi ha assunto la sua forma totalitaria mondialista come giustificazione del dominio statunitense sul pianeta intero. Di per se, il liberalismo può essere visto come la dottrina della libertà negativa, ovvero della libertà intesa in senso emancipativo, e quindi in contrapposizione diretta non solo con lo Stato ma anche con tutte le istituzioni che regolano la vita associata. Da questo scaturisce necessariamente una contrapposizione feroce fra diritto pretesamente naturale e diritto positivo, o per usare il lessico di Hayek, fra Legge (rigorosamente in maiuscolo) e legislazione. Se l’individuo astratto e storicamente decontestualizzato è sovranamente portatore di una serie di diritti inalienabili, qualunque limitazione al suo proprio arbitrio diventa, agli occhi del buon liberale, una sorta di affronto. In questo senso, possiamo notare una analogia del liberalismo con le altre ideologie moderne sorte dalla secolarizzazione del millenarismo giudaico-cristiano, ovvero comunismo ed anarchismo: l’identità teoretica di libertà e natura, ossia la concezione che la libertà sia una proprietà originaria di un individuo fuori dal contesto politico, determinato cioè come naturale.
Nessuno ha saputo esprimere meglio questo concetto dell’economista francese Jacques Sapir, il quale oltretutto è di formazione marxista ed è vicino al Front National: “Teorie politiche che non riconoscano nelle leggi universali dello stato la soppressione dello stato di natura, le rappresentazioni volutamente o involontariamente edulcorate dello stato di natura stesso, hanno come esito teorico l’incomprensione dell’essenza dello stato e come conseguenza pratica l’attuazione dello stato di natura. Così l’anarchismo, che addirittura immagina buono l’individuo naturale, rifiuta lo Stato e si manifesta praticamente come violenza impotente contro l’ordine sociale. Così il liberalismo, che con Locke immagina uno stato di natura in cui i diritti sono già presenti, si mostra infine come attuazione della precarietà sociale per garantire la sicurezza dell’investimento. Così il comunismo, che con Marx identifica lo stato di natura con l’individualismo della società civile, si è mostrato come distruzione dello stato costituzionale e come annullamento dell’individuo nel terrore poliziesco per garantire la tirannia del partito”. Il linguaggio è eccessivamente hobbesiano, ma il significato non potrebbe essere più chiaro di così: il rifiuto della politica come luogo di mediazione sociale degli interessi popolari è la caratteristica politicamente unificante delle ideologie escatologiche moderne.
Nel liberalismo, questa dichiarata ostilità per qualunque forma di decisionismo politico assume la forma di un elogio della Legge rispetto al diritto e persino rispetto alla democrazia, che per poter esistere deve appunto essere liberale, ovverossia formalistica, delegata, impersonale. Forse il maggior teorico novecentesco di questa visione del mondo è stato il politologo italiano Bruno Leoni, a cui è dedicato l’omonimo istituto di ispirazione neoliberale. Per Leoni la legislazione è un modo particolarmente inefficiente di approcciarsi al diritto, in particolar modo perché la legislazione dipende dal Parlamento che quindi è chiamato semplicemente a seguire gli umori delle varie e cangianti maggioranze, e se esiste qualcosa che infastidisce un liberale è proprio la “volontà generale” di giacobina memoria. Non sia mai che qualche volta la legislazione si ponga al servizio dei più poveri, limitando così l’efficienza allocativa del mercato. Intendiamoci: quando Leoni si lagnava della esasperante “inflazione legislativa” italiana non aveva sicuramente tutti i torti, ma il suo scopo non era una legislazione più efficiente, snella e de-burocratizzata, bensì la sua assenza. Di fatto, estende la classica critica che i liberali hanno sempre portato alla pianificazione economica centralizzata al diritto, in una ammirazione sperticata per il common law della tradizione britannica. Vi è quindi una esplicita ed appassionata difesa del ruolo dei giudici, che come un moderno Sinedrio si contrappongono alla politica e ne limitano l’autonomia attraverso un processo maieutico di “scoperta” del diritto che esce quindi dall’ambito della decisione politica per diventare una astrazione universalistica affidata alla sapiente cura degli “esperti”. La magistratura, da ordine, diventa quindi nelle costituzioni liberaldemocratiche un potere autonomo, autocratico e politicamente irresponsabile posto esplicitamente a difesa dell’ordine sociale spontaneo che il liberalismo pretende possa sorgere dalla libera interazione dei fattori produttivi. In Italia questo processo ha assunto dimensioni ipertrofiche a partire dal colpo di Stato noto come Mani Pulite, in cui la classe politica ha abdicato ad ogni possibile autonomia diventando ostaggio perenne di una magistratura eterodiretta. L’unico che ha avuto la possibilità reale di riformare il sistema giudiziario è stato Silvio Berlusconi, ma la riforma tanto auspicata non è mai andata in porto per la sua palese incapacità e vigliaccheria, oltre che per la sua oggettiva ricattabilità personale.
Anche nel resto del mondo occidentale questo meccanismo di de-politicizzazione del diritto è in atto, basti guardare negli Usa dove nozze omosessuali, aborto e ogni altra nefandezza libertaria (compreso lo smantellamento dei sindacati) sono state imposte a colpi di sentenze. Non a caso la campagna presidenziale si è anche rivolta alla nomina del seggio vacante alla Corte Suprema, che potrebbe ribaltare la maggioranza al suo interno. Chi controlla la Corte Suprema, sostanzialmente, controlla gli Stati Uniti d’America.
Matteo Rovatti