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Il sovranismo è tutt’altro che morto, come sentimento e come esasperazione di massa

by Stelio Fergola
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Roma, 19 ago – Che il “sovranismo” – declinato con queste parole per semplificare enormemente la questione – non abbia mai rappresentato un pensiero unitario o coerente è ovviamente logico. Qualcuno negli ultimi anni lo ha interpretato quasi alla stregua di una “moda passeggera”, soprattutto dopo le debacle ideologiche leghiste tra il 2020 e il 2022, quando il partito di Matteo Salvini aveva tirato i remi in barca su praticamente tutte le questioni dirimenti. Eppure il crollo che ne seguì per il Carroccio avrebbe dovuto far riflettere, invece che “scappare”: la gente negli ultimi anni ha votato e continua a votare chi percepisce come anti-sistema o quanto meno si dichiari desideroso di “cambiarlo dall’interno”. Slogan critico quanto si vuole, ma rappresentativo del modo di reagire dei cittadini ai fenomeni. Queste elezioni europee certificano ancora una volta la tendenza.

Sovranismo è una parola da non buttare

Vi ricordate la foto di questo articolo? Era il 2015 e l’euroscetticismo era in pompa magna in termini di dichiarazioni, tanto in Italia quanto in Francia. La parola stessa, “sovranismo” è praticamente sparita dai radar negli ultimi anni. Quasi come se fosse un pensiero ritenuto poco consono alle “nuove” – si fa per dire – strade, poco “utile” a spianare quelle più proficue. Eppure, non c’è una ragione logica per escludere il tema dalle riflessioni presenti e future. Rispetto  alle elezioni europeee del 2014 è passata davvero tanta acqua sotto i ponti: l’Ue ha affrontato almeno due crisi (quella del celebre “whatever it takes” di Mario Draghi fino all’ultima del Covid, per non parlare delle proteste degli agricoltori), ha dovuto confrontarsi con le sue palesi contraddizioni  e con l’incompatibilità del suo modello con prospettive di sviluppo serie, addirittura per il Paese che più ha guadagnato dalla sua costituzione (la Germania), ma soprattutto proprio il sopracitato euroscetticismo, da sentimento ritenuto eretico in precedenza, non solo è divenuto “possibile”, ma addirittura coinvolgente una buona metà degli elettori aventi diritto. In varie forme, sia chiaro, perché nessuno dei partiti stravotati si permette minimamente di discutere l’esistenza della cosiddetta Unione nella sua forma pseudo-istituzionale. Però ci girano intorno, giocano con un’esasperazione pubblica ormai radicata, richiamano ai popoli (seppur in modo confuso). E, alla fine, vincono. Certo, non eliminano ancora il “pensiero europeista” forte, rappresentato dal Ppe, ma sarebbe stato clamoroso osservarlo. Però vincono. Continuano a vincere. In ogni caso, certificano un percorso iniziato una decina di anni fa non ancora arrestatosi, almeno per ora.

Ascoltare la gente

Vince la Meloni che dichiara di guidare “l’Italia che cambia l’Europa”, vince Marie Le Pen che bastona Emmanuel Macron diventando il primo partito francese e costringe il presidente ad indire nuove elezioni legislative, vince AfD che in Germania supera il 16% dei voti. Questo, ripetiamolo, indipendentemente dalla realtà concreta. Se guardiamo a quella, Marie Le Pen è stata la prima in Europa ad abbandonare i toni forti trasformando il Front National nel Rassemblement nel 2017, peraltro senza neanche essere andata al governo ma “soltanto” con un partito divenuto di massa e – all’epoca – e inseguitore di quelli più liberali ed europeisti (che si trattasse dei cosiddetti socialisti di Francois Hollande o dei En Marche! del futuro capo dell’Eliseo Macron poco conta, oggi). È stata la prima a generare una sorta di “Fiuggi transalpina“, sebbene piuttosto silenziosa. La verità è che la gente continua a percepirla come fortemente discontinua, così i tedeschi fanno per AfD e gli italiani per Giorgia Meloni.

Esclusa la solita roccaforte Pd, in ascesa anche grazie all’affluenza limitata, anche in Italia ha vinto chi si è presentato come rinnovatore. Ripetiamolo: indipententemente dalla condotta concreta dei vincitori, la voglia di conservare questa baracca, in verità, ce l’ha sempre meno gente. È evidente che la Meloni in prima fila nel descrivere “L’Italia che cambia l’Europa”, faccia presa. È evidente come il Carroccio debba la sua rovina alla politica “istituzionalizzata”nei penosi anni di governo con Draghi e che il disperato tentativo di invertirla dialetticamente (anche con la goffa candidatura di Roberto Vannacci) non abbia funzionato, visto che, dai dati, i leghisti hanno subito anche il sorpasso dei forzisti devoti al “Berlusconi eterno”.

Il sovranismo non rappresenta un pensiero coerente ma forse bisognerebbe pensare a formularne uno, invece di continuare a gettare via il sentimento stesso come se fosse un fazzoletto usato. Le persone comuni, come è logico, non possono avere questo compito, distratte dai loro continui drammi quotidiani e da un impoverimento che procede incessantemente da decenni. C’è chi, nell’universo culturale, potrebbe farlo. Magari cominciando da una piccolissima attività: l’ascolto.

Stelio Fergola

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